Papille, il seguitissimo critico gastronomico fuori dagli schemi, amato dal popolo e temuto dai più grandi chef, perde l’uso della lingua e del gusto per la vendetta di uno chef stellato.
Puntate precedenti
Capitolo 1 – Panace di Mantegazza
Capitolo 4 – Mignon vegani, alici, cacao e melanzana
Capitolo 6 – Pomodoro Ciettaicale
Capitolo 9 – Zuppa di pipistrello
Capitolo 10 – Tramezzino pollo e insalata all’obitorio
Capitolo 16 – Rosmarino e basilico
Capitolo 17 – Falange di granchio oceanico
Capitolo 27 – Cucciolo di cinghiale
Capitolo 30 – Crostatina alla marmellata
Capitolo 33 – Cassette di pomodoro
Capitolo 35 – Croccante alle mandorle panna allo zabaione e erbe di campo
Capitolo 36
Ossa di Pollo
Il capannone è immerso nel silenzio delle ultime ore della notte. All’interno della piccola cella ricavata da un vecchio bagno in disuso, Papille siede con la schiena che preme su travi di legno grezzo.
Guarda l’uomo senza braccio. Riconosce il tipo che la prima notte gridava al campo di Tolve. Ora si lamenta a malapena. L’arto amputato ha la garza arrotolata sulla carne viva. Papille distoglie lo sguardo, l’indiano cerca aiuto senza poter gridare, muovendo veloce gli occhi neri.
Lì accanto, addormentato e sporco, c’è un bambino. Ha la testa riversa sulle ginocchia, una caviglia gonfia e rossa sporge dalla tuta che indossa. Il suo respiro è l’unico rumore costante all’interno della stanza.
Ha gli occhi di Linda. Pensa Papille. Davvero la linea macabra invisibile che confina l’animo di Sagripanti, comprende anche il rapimento di un bambino?
Cucinare è torbido. Cuocere, rompere ossa, insaporire cadaveri di animali trova nell’inconscio dell’essere umano un terreno ardimentoso.
L’uomo è in grado di costruire dentro di sé luoghi macabri. Dalla sopravvivenza dei nostri avi ad oggi, abbiamo reso normale cucinare. Ma questa violenza accettata, normalizzata, non basta a nutrire anime come quelle di Sagripanti.
Il bambino si muove. L’uomo con il braccio amputato si lamenta, Papille ha l’impressione stia pregando.
Poi si guarda intorno. La casupola non ha via d’uscita, nessun oggetto utile per difendersi. In quel momento uno degli albanesi apre la porta.
Il bambino si tira su in piedi come un ramo spinto dal vento. Ha gli occhi gonfi.
L’albanese si pianta nel mezzo della stanza. A Papille ricorda uno Chef stellato mentre in cucina, o in caserma che tanto ormai di differenze ce ne sono poche, terrorizza la brigata di cuochi intenti a cucinare. Il rispetto figlio della paura di una cucina si taglia allo stesso modo della tensione generata dall’albanese lì piantato sulla porta. Fissa il bambino, lo stagista di turno. Che però a differenza dello stagista, masochista conclamato, il bambino non sa perché sia lì.
Un rumore di pneumatici dall’esterno distrae Papille. L’albanese tira fuori un grosso coltello, la lama affilata è lunga quanto il palmo di una mano. È come se volesse controllare un piatto prima di servirlo.
Si china sul bambino gli tira su la testa e posiziona il coltello all’altezza del collo. Il bambino non piange. Papille nota dagli occhi che le lacrime le ha finite.
– Ora arriva Renato. Ti ho detto arriva Renato e tu fai quello che dice.
Lato A o Lato B. Ricorda Papille.
Guarda il bambino poi l’albanese. Quando la macchina si ferma, l’albanese libera il bambino.
Papille resta in silenzio.
– Ecco Renatino. Ti convince lui adesso su cosa da fare.
I due si guardano. Restano poi in silenzio mentre il bambino sembra aver perso i sensi. Dalla porta entra Renato.
In silenzio. Papille vede l’albanese abbassare gli occhi, come un soufflé che si sgonfia. L’indiano si appiattisce sul muro, ha il volto che si trasforma in una maschera di terrore.
– Albanese di merda. Cazzo fai con quel ragazzino? Sottosviluppato di merda. Col negretto te la devi prendere.
L’albanese lascia il piccolo, si stira la schiena senza alzare lo sguardo. Il ragazzino si accascia.
– Papille, finalmente. Come dicono nei film? La fama ti precede. Certo sei ridotto maluccio eh.
Papille lo fissa. Ha gli occhi calmi, vorrebbe ucciderlo. Prova lo stesso disinteresse verso la vita di quest’uomo del distacco con cui uno Chef seziona il corpo di un animale.
– Insomma. Papille. Facciamo un bel video in cui scagioniamo il buon Mauro ok? Ti piazzi davanti ai tuoi seguaci che si fanno le seghe quando insulti i cuochi e questa volta dici per bene quello che ti sto dicendo io. Spieghi bene bene che Mauro Sagripanti non voleva avvelenarti quella sera, ma tu hai scoperto a cena da lui l’allergia a un’ingrediente che non avevi mai assaggiato. Una spezia, inventati una cazzo di allergia insomma. E dici anche che quelle quattro merdate che cucina erano pure buone. Così nessuno si fa male. Mauro è emotivo, ma è un buon uomo. Ha i suoi vizietti. Tu fai un bel video e il negretto lì non muore. Che tanto da quando non ha un braccio parla troppo. La lingua doveva amputarsi.
L’albanese annuisce, accenna un sorriso finto, costruito. Ha paura di Renato, lo vede.
– N-on far-ò ness-sun video.
– Ah no? Io credo invece che farai un bellissimo video. E inoltre confesserai se hai materiale su Mauro che potrebbe farmi arrabbiare. O che ne so, su di me. La tua amica Linda, la troietta mamma di questo ragazzino, l’ho convinta con un po’ di crudo. – Dopo un istante di silenzio, Renato ride.
Linda è viva, era con loro. Pensa Papille.
Il bambino sembra riprendersi.
– N-on farò nes-sun video. Piut-tosto tagliala a me l-la gola.
Renato abbassa gli occhi. Respira. Guarda l’albanese e gli prende il coltello. Va verso l’indiano che ha gli occhi sgranati, aperti, rotondi e neri.
Renato pur se grosso, pesante, si muove veloce. Spinge il ginocchio sul petto dell’uomo immobilizzandolo e si china.
– Adrian, di un numero.
L’albanese lo guarda, senza risposta pronta.
– Dì un cazzo di numero, da uno a cinque. Un numero, testa di cazzo.
– Tre. – Risponde.
E Renato prende il braccio dell’uomo a terra che si dimena. Lo immobilizza, lui stringe l’unica mano in un pugno, la pelle è bianca dallo sforzo. Papille guarda in silenzio. Lato B. Non farà alcun video, non dopo tutto quello che ha vissuto.
Renato riesce ad aprire la mano dell’indiano che si dimena. Guarda Papille che non parla. Con il coltello, recide tre dita dell’uomo. Lo fa senza esercitare violenza, è un gesto forte, meccanico che la vittima non ha tempo di capire. Passa qualche istante prima che arrivi il dolore. Il dolore vero, quello enorme, insostenibile ci mette qualche istante ad arrivare. L’uomo grida e poi sviene.
– Ora, – grida Renato per sovrastare le urla, – ne restano due. Conto fino a due, tu mi confermi che farai il video e io non taglio anulare e mignolo di questo qua.
C’è una linea che separa il lato A dal lato B. Superata, finiti nell’altro lato, tutto ha un senso diverso. E nel lato B, questo è sostenibile. Come per un cuoco tranciare le ossa di un pollo morto, sgozzare un maiale e appenderlo e insaporirlo, qui, in questo luogo, per Papille è possibile lasciare che le cose vadano come devono andare.
– Uno, due. – Grida Renato.
Al silenzio che segue, Renato guarda Papille e taglia anche le altre due dita.
– Portalo via, – dice all’albanese spingendo l’uomo inerme. – E se strilla troppo quando si sveglia ammazzalo che senza braccia e dita non ci serve a niente.
Qual è la differenza tra Renato, lui, è uno Chef, pensa. Tutti e tre hanno luoghi macabri. È il salto nel Lato B la differenza, dove l’ego incontra il nero. Papille non prova niente per quell’indiano. Se tornasse indietro, forse, non salverebbe Linda dall’aggressione al campo a Tolve.
Questi uomini sono tutti nel lato B, affogano nel nero del loro animo e volerli disintegrare spinge Papille a immergersi nella loro melma. Lo sente. Sente la disponibilità a tutto pur di rovinarli.
Cela un sorriso.
Si alza in piedi. Il fisico magro, elegante è solcato dalla stanchezza tra le pieghe della pelle, negli occhi. La fame.
Pensa al rumore delle ossa di pollo che si spezzano, alle dita dell’uomo, ai pomodori macchiati di sangue nei piatti di Chef di tutta Italia.
Si avvicina a Renato.
–Uc-cidimi. Uc-cidimi e tut-to quel-lo che ho document-tato s-sarà inviat-to all-la s-stampa.
I muscoli del volto di Renato sembrano corteccia dura e levigata dal tempo, non si muovono. Gli occhi piccoli fissi su Papille.
Ripone il coltello, fa un passo indietro. Guarda Papille, poi l’albanese.
– Il nostro ospite famoso è meno disponibile del previsto. – Poi si sposta verso il bambino. Si china. Lo guarda, gli guarda le mani piccole e bianche senza peli. Resta su di lui, poi fa un cenno con la testa all’albanese: – Adrian, scegli un altro numero.