Papille, il seguitissimo critico gastronomico fuori dagli schemi, amato dal popolo e temuto dai più grandi chef, perde l’uso della lingua e del gusto per la vendetta di uno chef stellato.
Puntate precedenti
Capitolo 1 – Panace di Mantegazza
Capitolo 4 – Mignon vegani, alici, cacao e melanzana
Capitolo 6 – Pomodoro Ciettaicale
Capitolo 9 – Zuppa di pipistrello
Capitolo 10 – Tramezzino pollo e insalata all’obitorio
Capitolo 16 – Rosmarino e basilico
Capitolo 17 – Falange di granchio oceanico
Capitolo 27
Cucciolo di cinghiale
Godersi i complimenti, prendere in prima fila gli elogi è cosa usuale per lui. La sensazione di oscurare la brigata di cuochi e lo staff lo sfiora ormai solo per qualche istante ed è abituato a scacciarla. Sagripanti sale nella sua Mercedes Slk nera dopo aver lasciato il Comì. La notte lo spinge a fare quei pensieri al limite, a sentire la potenza del suo lavoro, l’espressione del suo lato più buio senza che nessuno lo tocchi davvero con mano. Per quello ci sono le seratine con Renato. La cena è andata bene. I piatti erano quasi tutti vuoti, qualche cuore di maiale è stato lasciato ma è normale. Si giustifica. Molti clienti sono impressionabili ed eccoli lì a scusarsi: – Ma no era ottimo solo che impegnativo, impressionante. – O anche – Squisito, chef ma come le vengono in mente queste portate? Sono meravigliose. Io non riesco a finire il cuore perché mi sento provata emotivamente. Complimenti!
Il telefono suona, siri legge il messaggio: @Renatino scrive: Tra mezz’ora siamo da te.
La Mercedes sfila per la strada, qualche macchina arriva dalla direzione opposta illuminando il volto pallido di Sagripanti.
Il Comì non esplode, non lascia il segno. Stringe il volante. Per un istante con le tre stelle ha creduto di aver raggiunto il massimo e poter scolpire il suo nome nel firmamento del gusto italiano. Ma una volta persa la terza e la seconda stella in soli due anni, una dopo l’altra, ha capito. L’olimpo è mantenere il livello. Non basta sfiorare il cielo se poi crolli. Scendere vuol dire perdere. Qualche gocciolina di pioggia picchietta la macchina, il pensiero di Papille che gli ha strappato il cielo riaffiora.
– Io gli ho strappato la lingua. – dice ad alta voce a se stesso. Si guarda nello specchietto retrovisore. Ha gli occhi scavati, le occhiaie appena pronunciate e un lieve rossore attorno alle palpebre.
Distratto dalla sua immagine riflessa, intravede un’ombra, poi un suono sinistro, un grugnito di dolore e qualcosa rotola sulla strada dietro al silenziosa Mercedes.
– Oh cazzo! – Esclama.
Sente la ruota posteriore passarci sopra, i finestrini sono abbassati e nitido sente un grido animalesco. È buio, non passa nessuna macchina. Dallo specchietto retrovisore vede un’ombra sull’asfalto.
Accosta. Apre la portiera, sente dei lamenti. Si avvicina. A terra c’è un cinghiale, deve essere un cucciolo, non è più grande di un gatto. Muove le zampe adagiato su un fianco, si dimena.
Sagripanti lo fissa. Lo guarda agonizzare per qualche secondo. È una buona occasione, pensa. L’animale sembra sia stato colpito al ventre, deve avere le costole rotte e un’emorragia interna a giudicare dal sangue. Non dovrebbe reagire con eccessiva violenza.
Torna alla macchina. Nel portabagagli ha una coperta e degli attrezzi. Prende un lenzuolo scuro. Torna dall’animale che si muove a fatica, i movimenti sono ritardati dalla grossa ferita. Sagripanti lo avvolge nella coperta e lo carica in macchina stringendolo per impedirgli movimenti. Si guarda intorno.
Se dovessero fermarlo, può sempre dire che ha soccorso un animale e lo sta portando da un veterinario. Il piccolo di cinghiale guaisce dal portabagagli. Sembra che man mano che procede alla guida, l’animale perda forze. Spinge il piede sull’acceleratore. Arriva a casa alle ventitré, prende il telefono. @MSagripanti scrive: Renny, arriva con una mezz’ora tre quarti di ritardo. Ho un contrattempo.
Il box si apre e la mercedes entra. Sagripanti prende il telefono, il portadocumenti e scende.
Apre la porta che dà sulle scale. Il cinghiale si agita. Lo prende dal portabagagli. Quanto avrà? Si chiede. Pochi mesi? Non pesa più di un grosso gatto. Sale in casa stringendo il lenzuolo con dentro l’animale in una morsa. L’ambiente è austero. Come sempre gode dei particolari minimalisti dall’arredamento che ha scelto. Sul muro del salotto c’è un quadro di una battuta di caccia rinascimentale, è il massimo che si è concesso. Cani e padroni in cerca di una volpe. Il resto è il necessario. Un tavolo di design, un impianto Bose nero e due casse alte e sottili ai lati del lettore di vinili.
Gli piacciono le ragazzine giovani, appena ventenni. Pensa guardando il divano nero. Alle ragazzine piace una casa minimalista, vuota. La sanno riempire della loro energia, della voglia di quel sesso inesperto che solo a quell’età sai fare. C’ha questa passione per le ragazze giovani che quella volta in cui Renato gli ha portato quelle due trentatreenni, quasi andava su tutte le furie. Forse per quello è sfuggito tutto di mano durante quella serata. Le doveva rispedire all’ospizio. Quella prostituta morta, pensa. Il corpo. Il video. Se la ricorda bene quella notte a risolvere il problema. Il gioco non è valso la candela.
In cucina, appoggia l’animale sul tavolo e toglie il lenzuolo zuppo di sangue. Il cucciolo non riesce a muoversi, è in grado di articolare le zampe in veloci e brevi movimenti meccanici, i lamenti sono sempre più flebili. L’animale ha il lato destro del torace aperto, gli occhi vitrei e il pelo raggrinzito ha chiazze rosse tutte intorno alla ferita. Vede i denti, il fiato rotto dalla difficoltà respiratoria.
– Questo è il mio lavoro, creare capolavori con i vostri cadaveri e farli mangiare alle persone per riempire il loro vuoto. – Sussurra al cinghiale. – Per questo cucino. Ed è legale.
Si sposta nella sua camera da letto. Lascia l’animale sul tavolo della cucina. Nella camera, le lenzuola sul letto sono di seta, rosso scuro. La cabina armadio aperta è ordinata, un quadro di Cézanne sopra al letto è l’unico oggetto ad adornare la stanza insieme a un grande specchio fumè. Si guarda. Elegante come sempre, deve aver perso un paio di chili, ha l’aria di essersi asciugato. È l’anima, pensa. Che mi prosciuga mentre se ne va. Guarda l’orologio. La finestra della camera da letto che affaccia sul cortiletto esterno della casa, è aperta. Ripensa a quando ha preso questa villetta. Poco fuori Milano con giardino, in un vicolo quasi mai battuto. Non sono mai entrati ladri, lui però quella finestra lì la chiude sempre ed è strano sia aperta.
Si guarda intorno. Forse è Renato per fare un gioco diverso dal solito. Magari far cogliere le ragazze che avrà portato come se fossero ladre per punirle di brutto. – Renato che scherzi che mi fai! – Dice a voce alta.
Dalla casa silenziosa non arriva risposta. Dopo aver notato la finestra spalancata, i sensi si sono acuiti. Glielo ha pure scritto di arrivare più tardi.
Gira intorno al letto, entra nella cabina armadio. Mentre muove le giacche da chef, si accorge di averne ancora una con tre stelle ricamate.
Pensa che Papille sarebbe dovuto morire. Una volta calmate le acque lui il carcere l’avrebbe saltato. Allergia, reazione allergica, shock anafilattico. Il Panace di Mantegazza che mise nella sua zuppa era in dosi molto basse, appena sufficienti. Ma si è salvato. Servono analisi specifiche. – Figurati se le vanno a fare. – Sussurra.
Ripone la giacca e apre la cassaforte dietro i vestiti digitando il codice. Ci sono molte cose lì dentro. Prende una videocamera Sony e torna in salone passando per la camera.
Ma Papille è ancora vivo. Pensa. E sta cercando di distruggerlo. Si guarda intorno, nessuno. Renato non c’è e neanche le due tipe che deve portare.
Torna in cucina. Un odore di carne si infila nelle narici, carne mista a fango e feci. – Puzzi bello mio, non so se puzzi più di merda o di morte.
Il cinghiale emette un sussulto e si agita. Continua a perdere sangue, riprende conoscenza e poi adagia di nuovo il muso sul tavolo.
Piazza la videocamera sui fornelli davanti al lato ferito dell’animale. La accende e spinge REC. Si avvicina. Lo guarda mentre cerca di dimenarsi ma le forze non glielo permettono.
– Sono fortunato. – Dice.
Guarda la videocamera. Gira intorno al tavolo e prende il suo set di coltelli.
– Sei fortunato anche tu. Sei capitato proprio nel posto giusto.
Si guarda intorno. La sensazione di allerta è in secondo piano rispetto al desiderio riposto nel cinghiale ma non lo abbandona.
Forse ha lasciato lui la finestra aperta, anzi, di certo. Fa sfilare i coltelli e ne sceglie uno piccolo, dalla lama corta e affilata. Si avvicina al tavolo, appoggia le mani sul legno. La testa ciondola sopra il cinghiale che respira a fatica.
Lo chef guarda la videocamera, poi alza una mano e la infila dritta nella ferita del cinghiale. La pelle, i peli poi il viscido della carne viva, le ossa del costato rotte il fegato la milza e poi il cuore. Lo prende, lo sente e lo stringe e lo può riconoscere perché del cinghiale ha cucinato ogni lembo di carne e riconosce tutto.
Guarda la telecamera. Non è malato. È arte la sua. Vita e morte. Il cinghiale scatta robotico e stramazza sul tavolo mentre lo chef tira il cuore e recide i filamenti con il piccolo coltello. Altro che seratina con Renato. – Renato mio. – Dice alla telecamera. – Oggi è il mio giorno fortunato.
Prende il telefono con le mani insanguinate. Lo sblocca con il riconoscimento del viso e digita con difficoltà per via del sangue:
@Msagrpianti scrive: Re, tutto rimndt, ho un contrattmp.
Lascia strisce rosse sullo schermo e ripone il telefono sul tavolo.
Ne ha sgozzati di maiali, ne ha lavorata di carne. In campagna, al mattatoio da ragazzino. Ma così, così viva e casuale quasi fosse una preda in fuga. Quell’adrenalina dell’eccessivo che gli si condensa in piccole gocce di sudore freddo sulla fronte. Dentro casa poi. Può lavorare ogni parte di quell’animale come avrebbe fatto un uomo delle caverne. Non ne butterà un angolo, niente.
– Qui e ora, signori. – Dice rivolto alla telecamera. – Perché la sua morte signore e signori, la morte che ho inflitto con le mie mani a questa bestia, non sia vana.
Mentre parla, occhi magnetici all’obiettivo della videocamera, un oggetto pesante gli finisce sulla testa, sul lobo destro. La sua pelle si apre come burro, il colpo non è mortale, lo sente, è forte gli si annebbia la vista, cerca di non cadere ma non è mortale non può morire se ha il tempo di realizzare che non può far altro che svenire.