Papille, il seguitissimo critico gastronomico fuori dagli schemi, amato dal popolo e temuto dai più grandi chef, perde l’uso della lingua e del gusto per la vendetta di uno chef stellato.
Puntate precedenti
Capitolo 1 – Panace di Mantegazza
Capitolo 4 – Mignon vegani, alici, cacao e melanzana
Capitolo 6 – Pomodoro Ciettaicale
Capitolo 9 – Zuppa di pipistrello
Capitolo 10 – Tramezzino pollo e insalata all’obitorio
Capitolo 16 – Rosmarino e basilico
Capitolo 17 – Falange di granchio oceanico
Capitolo 27 – Cucciolo di cinghiale
Capitolo 30 – Crostatina alla marmellata
Capitolo 33 – Cassette di pomodoro
Capitolo 35 – Croccante alle mandorle panna allo zabaione e erbe di campo
Capitolo 39 – Coulis di mirtilli, more e lamponi
Capitolo 40 – Riduzione d’aceto
Capitolo 41 – Carciofi sott’olio
Capitolo 42
Terra
Papille muove la testa, attento a ogni rumore che arrivi dai dintorni del casolare.
Renato sta tornando. Deve ancora rispondergli al messaggio.
Prende il telefono dell’albanese e digita: @Adrian scrive: È andato via, io ho visto lui andare verso campi correndo.
Invia, poi guarda la botola.
Da quando l’ha aperta non si è ancora mosso nulla. Non sente rumori. Accende il flash del telefono e lo punta dritto nell’oscurità.
Non può sentire l’odore di carne, di sudore, di stantio che sale rinfrescato dall’aria esterna che entra nel portellone. C’è qualcuno all’interno. Il ragazzino, il figlio di Linda pensa.
Il flash illumina le scale. Gli occhi di Papille incontrano due, quattro, almeno una dozzina di altri occhi. È un momento breve quello in cui le ombre dentro lo scantinato restano immobili e tese, poi capiscono di non avere davanti un carceriere. Papille indietreggia, fa cenno di aspettare, di stare calmi.
Gli uomini salgono i gradini, piano. Una processione uguale a quelle che nei piccoli paesi la domenica riempie le chiese. Poi aumentano il ritmo, circondano Papille sicuri che lui non sia uno degli albanesi.
Papille continua a far cenno di rimanere calmi.
– Par-rlate italian-no?
Il gruppetto di uomini cresce, una ventina di persone respira con la testa in su aria fresca.
– Par-late it-tal-iano? – Ripete a fatica, poi si pulisce la bocca umida per lo sforzo.
Lo guardano. L’uomo più anziano fa un cenno con il volto. Due uomini avanzano e lo immobilizzano. Lo spingono a terra. L’uomo più giovane dalla pelle nera con una piccola cicatrice a forma di luna sotto l’occhio, gli spinge un ginocchio sul collo.
– Io sì.– L’uomo che aveva dato il comando, fa un passo avanti. Sembra abbia una cinquantina d’anni, è indiano ma parla un italiano perfetto.
– Abbiamo sentito delle grida da dentro il casolare. Chi sei?
– R-renat-to ha uc-ciso un-na donna. – Deglutisce.
Altri due uomini gli bloccano le braccia all’altezza dei polsi sotto le scarpe. – Sta tor-nando per me, aiutatemi ad affrontarlo.
– Dicci chi sei.
– È compl-lesso d-da spiegar-re.
L’uomo che gli blocca il collo aumenta la pressione.
–Abbiamo poco t-temp-po. Vi pr-rego.
– Perché dovremmo fidarci di te?
Papille resta in silenzio. Respira a fatica. Tossisce. Dalla gola compressa esce poca aria.
– Perché ci dovremmo fidare di te? – Non ha inflessioni di tono o di pronuncia l’uomo.
– Potresti essere uno di loro. E pensi non vorremmo ucciderlo noi Renato? Se non lo abbiamo fatto è perché ci ricatta.
Noi lavoriamo qui e per farci lavorare ci trattiene i soldi che un giorno ci darà. Io sono quello fortunato qua in mezzo. Li vedi questi?
Indica il gruppo di uomini.
– Arrivano dall’Africa, non parlano italiano e Renato mi dà una piccola parte in più per ognuno di loro che gli porto.
Il petto di Papille si sgonfia, come se la speranza uscisse fuori per perdersi nell’aria.
– Sai quanto pagano per raccogliere i pomodori in queste zone? – Continua l’uomo, – quindici euro a giornata. Dieci li lasciano per mangiare, cinque li trattiene Renato come assicurazione, a me ne lascia tre in più.
– Io p-pos-so aiut-tarti.
–E come?
– P-os-so f-far crol-lare R-renat-to e liber-arvi. Dir-e al mon-do com-e vivet-te.
L’uomo sorride. Tiene il sorriso sul volto per un po’, poi gli occhi si stringono.
– E pensi che al mondo interessi? O che a me interessi?
Papille resta in silenzio.
– Offrimi più soldi di Renato e l’amico qui non ti spezza il collo.
Ora, pensa, davvero non può fare più nulla. Morire per mano di braccianti e non per quelle di Renato. Prova a liberarsi, ma con poca foga. Gli uomini non allentano la pressione.
E per la prima volta si odia. Credeva fosse facile restare tra le fiamme alte dell’inferno. Credeva di potercela fare.
– Ragazzo, devi stare attento che la vita fa promesse che non avrai mai. – Gli disse una volta il padre. Non ricorda il motivo. E ci pensa, ora, e gli viene da ridere perché sia per mano di questi africani che per mano di Renato, morirà. E per le promesse mai mantenute ride. Per il video che il mondo vedrà. Gli viene da ridere che il collo sotto al ginocchio del giovane gli fa male, quasi si strozza. Ma ride e non gli interessa più. Perché prima di morire pensa al riconciliarsi con quelle parti di sé che ha barattato per il successo, per il silenzio, per l’unica promessa mantenuta che ha avuto. Quella di non farsi umiliare, mai.
Gli uomini lo guardano.
– Che ridi?
Papille non risponde, mezzo sorriso gli rimane sul volto. Chiude gli occhi. Aspetta glielo spezzino.
Visualizza il volto del ragazzino. Pensa a lui, a Linda ancora faccia a terra nel casolare. Al ragazzino pietrificato. Che non vedrà mai più la madre.
Le immagini svaniscono quando qualcuno lo tira su in piedi. Almeno sei braccia lo sollevano dritto davanti all’uomo più anziano. A pochi centimetri dal suo volto.
– Io mi ricordo di te. Tu hai aiutato Solomon al campo. Il ragazzino che parla troppo. Tu sei l’uomo che lo ha aiutato.
Papille in silenzio annuisce poco convinto. Sì lo ha aiutato. Ma ad affiorare è solo il ricordo di Solomon che cade a terra nel mezzo di una piazza e lui che prova a scappare per non farsi prendere dai Carabinieri.
– Solomon è solo al mondo ed è diabetico. E io me ne prendo cura. Ora è in difficoltà penso, perché è sparito di nuovo. Ma mi ricordo di te, lui mi ha parlato di un uomo strano che parla male e ha la lingua gonfia. Mentre ridevi l’ho vista. Ora. Io ti libero, tu sparisci.
Papille lo guarda negli occhi. Vuole dirgli che non se ne andrà e che affronterà Renato. L’attenzione va su due giovani uomini, gli unici già più lontani dal gruppetto, che iniziano a correre. Scappano. Corrono veloci.
Altri due ragazzi molto alti, dal fisico asciutto e tonico guardano l’uomo davanti Papille. Lui fa cenno di no, Papille percepisce che li avrebbero trovati in seguito, che è solo un rimandare. C’è spietatezza nel suo sguardo, osserva.
– Vattene anche te. Non ti farò braccare – Dice l’uomo. Mangiati i pomodori tranquillo a casa, pagali poco, goditeli. Che a questo pensiamo noi. Indica il casolare.
– Ques-st-to può cambiar-re.
– No. Non cambierà mai. Ce ne saranno altri migliaia come noi. E poi altre migliaia. E migliaia saranno i vostri pomodori a tavola e decine i nostri morti sottoterra. Vai via e non tornare.
L’uomo si gira, fa cenno agli altri di seguirlo. E silenziosi, tutti con il capo chino tranne lui, rientrano nello scantinato.
Papille li guarda. Li segue qualche passo e li vede sparire nel buio.
Poi dal fondo delle scale sente la voce dell’uomo:
– Chiudi il portellone. E vattene.
Papille fa il gesto ma si ritrae. Poi tira la maniglia e chiude i braccianti nello scantinato. Passa minuti interi immobile a fissare il legno della grossa botola. Poi dei passi, passi di più di una persona, leggeri, lo distraggono. Papille si allontana, gira silenzioso e veloce attorno al casolare, fino a che non si ritrova alle spalle di due ombre.