Papille, il seguitissimo critico gastronomico fuori dagli schemi, amato dal popolo e temuto dai più grandi chef, perde l’uso della lingua e del gusto per la vendetta di uno chef stellato.
Puntate precedenti
Capitolo 1 – Panace di Mantegazza
Capitolo 4 – Mignon vegani, alici, cacao e melanzana
Capitolo 6 – Pomodoro Ciettaicale
Capitolo 9 – Zuppa di pipistrello
Capitolo 10 – Tramezzino pollo e insalata all’obitorio
Capitolo 16 – Rosmarino e basilico
Capitolo 17 – Falange di granchio oceanico
Capitolo 27 – Cucciolo di cinghiale
Capitolo 30 – Crostatina alla marmellata
Capitolo 33 – Cassette di pomodoro
Capitolo 35 – Croccante alle mandorle panna allo zabaione e erbe di campo
Capitolo 39 – Coulis di mirtilli, more e lamponi
Capitolo 40 – Riduzione d’aceto
Capitolo 41
Carciofi sott’olio
Tapparsi le orecchie è la prima cosa. Ti tappi le orecchie e non senti tua madre che grida. Se ti tappi le orecchie non devi cercare di capire se le grida siano di dolore o di paura. Premi forte che le cartilagini ti si arrossano e il suono arriva attutito. Devi imparare a capire se le pause di silenzio servono solo per respirare o se le botte sono finite.
Se disgraziatamente ti tiri via le mani perché non senti più niente, e poi invece riparte lo scrocchiare delle nocche sul viso e segue un grido, lì rischi che tuo padre poi lo devi uccidere ma non sei in grado. Quindi impari a percepire la durata dei singhiozzi. Se noti una lieve, impercettibile distensione, significa che tuo padre, a breve, la lascerà stare.
Ma sei troppo piccolo Renatino. Mentre ti guardi allo specchio con le lacrime grosse sugli occhi e parli a te stesso come se fosse qualcun altro a risponderti, capisci che tuo padre proprio non lo riesci ad ammazzare.
Per ammazzarlo dovresti: non avere paura, e non essere una femminuccia.
Renatino guardati lì sotto. La vedi quella bella chiazza scura? Hai i pantaloni tutti bagnati come le femminucce e se tuo padre ti vede. Oh se tuo padre ti vede.
Eccolo che arriva, i passi. No, no aspetta, sta tornando indietro. Ti tappi di nuovo le orecchie.
Tremi. No, non ci credo. Stai tremando. Una femminuccia. Ha ragione tuo padre, come ti dice? Frocetto. Eh, ha ragione.
Sentila tua madre come grida. Aspetta, aspetta. Ora ha smesso per davvero.
Lo senti quel lieve rantolio, ecco, ha smesso e ora lui sta venendo qui.
Fagli vedere chi sei.
Ma non fargli quella faccetta buffa. Quella che fai a tua madre quando mentre piange dopo che tuo padre ve le ha date ti dice: – vieni qui amore di mamma. E tu ti accoccoli sul suo petto e sorridi come un ebete e poi piangi. I passi si avvicinano, li senti. Non scappare. Renatino affronta tuo padre.
Renato infilati sotto al letto. Trattieni le lacrime. Guardi un angolino dello specchio, riflesso ci sei sempre tu Renato ma con un’espressione distorta, come quella di un mostro. Volgi lo sguardo d’istinto verso la porta.
Senti i passi del padre. Ti stringi sotto al letto, verso il muro.
Ti stringe tanto da sentir scrocchiare le ossa.
La porta si apre. – Esci da sotto il letto. Le femminucce piangono. Ti sento sai? Tra quella gambette grassocce tieni per caso la patatina?
La mano di tuo padre è grande come una pala. Ti agita un po’ sotto al letto e ti afferra per i capelli.
Vieni trascinato per il pavimento, fino alla porta, poi nel breve corridoio disordinato fino alla sala da pranzo.
– Guarda come mi ha costretto a ridurre tua madre.
Renato però, perché non apri gli occhi? Nel buio non senti neanche il respiro di tua madre e magari, pensi, sei così ingenuo da pensare magari tua madre non sia lì. Magari è scappata.
Poi senti il fiato pesante, la puzza di alcol e carciofi farsi densa intorno al tuo naso.
– Mi sa che è morta lo sai?
Renato, distendi le palpebre. Devi guardare.
– Guarda cosa hai fatto a tua madre. – Ti ripete tuo padre.
L’odore di alcol ti sembra poi si allontani, torna l’aroma di pulito, del bucato cui sei abituato quando siete te e la mamma. I passi si allontanano, ne sei quasi sicuro, la porta di casa si apre e poi sbatte. Per sicurezza però, come se il buio fosse un cuscino pronto ad attutire i colpi, combatti il volerla guardare e resti qualche minuto con gli occhi chiusi.
Poi li apri, per forza.
La riconosci dai capelli, riversa su se stessa. La posizione è strana, pensi.
– Mamma.
C’è una cornice senza foto sul tavolo. È a specchio, ti rifletti in una storpia immagine di te.
Così ti avvicini, prendi la cornice e la tiri a terra frantumandola. Tra i pezzettini di vetro vedi decine di te. Li guardi tutti negli occhi, fino a che lì dentro non vedi più un mostro oblungo, ma la tua faccia rotonda, con gli occhi rotondi e il sorriso rotondo. E sorridi, è un ghigno malefico.
Inspiri. Ti giri. Vai incontro a tua madre e la scavalchi e prendi il telefono.
Digiti: 1, 1, 2. Risponde una donna.
– Ho ucciso mia madre. Via Aloisi 32, primo piano. E riagganci. E ti siedi.
L’espressione, nell’attesa, non muta. Tre grossi agenti di polizia seguiti da due paramedici entrano in casa.
Non ti muovi. Parlano tra loro, poi parlano con te ma non li senti. Non senti niente. Ti prendono di peso e ti portano via.
Ti guardi nello specchio di una vecchia Alfa Romeo. I primi peli della barba ormai sono cresciuti. Ti specchi nella penombra del vicolo dove affaccia l’uscita d’emergenza del bingo, lì tuo padre spendeva il suo primo giorno fuori dal carcere dopo anni per buona condotta.
Ti tocchi le guance, ti pulisci dal volto degli schizzi di sangue. Avresti potuto farlo tanti anni fa Renatino, molti anni fa.