Papille, il seguitissimo critico gastronomico fuori dagli schemi, amato dal popolo e temuto dai più grandi chef, perde l’uso della lingua e del gusto per la vendetta di uno chef stellato.
Puntate precedenti
Capitolo 1 – Panace di Mantegazza
Capitolo 4 – Mignon vegani, alici, cacao e melanzana
Capitolo 6 – Pomodoro Ciettaicale
Capitolo 9 – Zuppa di pipistrello
Capitolo 10 – Tramezzino pollo e insalata all’obitorio
Capitolo 16 – Rosmarino e basilico
Capitolo 17 – Falange di granchio oceanico
Capitolo 27 – Cucciolo di cinghiale
Capitolo 30 – Crostatina alla marmellata
Capitolo 33 – Cassette di pomodoro
Capitolo 35 – Croccante alle mandorle panna allo zabaione e erbe di campo
Capitolo 38
Melanzane viola
Renato non è più tornato durante la notte. È uscito dalla stanza senza tagliare le dita al bambino che è rimasto inchiodato al muro.
Nell’entroterra lucano i casolari sono rari, distanti; intorno non deve esserci nessuno, pensa. Si tocca la lingua scorticata e rugosa per le cicatrici. Sforzandosi un po’ gli sembra di parlare meglio. Si passa un dito sulle cicatrici, a malapena percepisce la pressione, ma non c’è alcun sapore. Pensa a Sagripanti, alla cucina.
Pensa che il suo lavoro di critico sia morto per sempre, finito.
Il padre una volta, qualche anno prima di morire, gli disse: – a partire sono i codardi a restare sono gli stolti. –
La banalità dei suoi detti, di norma mai sostenuti da spiegazioni valide, lo irritano ancora lasciando poi spazio a un poco di senso di colpa.
Però lì, dentro quella grossa stanza, lontano da tutto quanto si era costruito negli anni, il pensiero va a suo padre.
La vita risiede in quella tensione tra l’andare via e il restare in effetti, pensa. Scappare, trovare il modo di sparire dalla Basilicata, dal cibo, da YouTube con la sua lingua compromessa e le papille gustative inutilizzabili, o restare. Stare, per compiere per completare e farla pagare. E in quella tensione c’è lui, pensa. Sta lì, consapevole la sua vita sia su un binario morto. Imbrigliato dentro quel casolare con le mani legate insieme a un bambino che a guardarlo con attenzione ha le labbra ondulate e la mandibola fina identiche a quelle di Linda. Prova ad alzarsi muovendosi piano. Fuori dalla stanza tutto è silenzioso. Si avvicina alla porta, le mani legate davanti alla pancia non lo ostacolano, prova a tirare giù la maniglia che stride. Non è chiusa a chiave, tira subito con forza ma la porta si blocca. Tira di nuovo. Deve esserci una sbarra dalla parte opposta.
I due si guardano. Papille poi scandaglia tutto intorno al perimetro della stanza fino al soffitto da cui pende un filo con una lampadina. L’unico mobile è appoggiato a terra, aperto e vuoto.
Cammina avanti e indietro per la stanza. Il padre è rimasto. Incastrato in quel ristorante per tutta la vita. Abusato, vessato. Lui no, lui prima che tutto crollasse era il più temuto critico gastronomico d’Italia. E allora si chiede perché senta il vuoto riempirsi di nuovo all’idea di sparire.
Si avvicina al bambino che si ritrae. Papille si piega. Senza parlare, lo accarezza e lui distende le spalle. Ma la porta inizia a far rumore, qualcuno leva il palo dalla parte opposta.
Papille si alza. Indietreggia.
La porta si spalanca. La testa dell’albanese, Adrian, spunta da dietro quella di una donna. Ha la testa piegata i capelli le coprono il volto. I vestiti logori, sembra fatichi a reggersi in piedi.
L’albanese la lascia e si ritrae chiudendo la porta. La donna cade sulle ginocchia e si accascia.
Papille fa un passo verso di lei. Il bambino si alza.
– Mamma! Mamma! Mamma! – Grida. Si lancia sulla donna a terra e la strattona. La tira, la spinge. Lei è a terra. Lui grida. – Mamma! Mamma mi rispondi? Mamma.
Papille lo prende per la spalla e lo blocca – Cal-lmo.
I capelli della donna le coprono ancora il viso. Non si muove.
Papille le sfiora la testa. – L-linda.
Il bambino stringe il polso di Papille. Lui resta immobile, nessuno lo ha mai stretto con così tanta necessità.
Muove il braccio e si libera dalla presa. Linda è ancora a terra.
– Aiutala. Aiutala. Mamma rispondi!
Papille la solleva.
Ha gli occhi gonfi, viola come melanzane. Le guance appaiono arrossate e sul collo si vedono chiari segni di corda, il labbro superiore è striato di sangue.
– Mamma. Mam-ma.
In quel momento la porta cigola Renato la apre del tutto.
– Ecco mammina. Ora. Mauro per colpa di questa rompi cazzo è in ospedale con il volto paralizzato. Papille muove la testa. Sagripanti in ospedale. Si chiede.
– Quindi ora. Capiamoci. Lei è mezza morta, – guarda il bambino, – tu non frignare. Ho detto mezza. – Passa due dita nel naso e poi le strofina sui pantaloni.
– Porta via il bambino. – Dice all’albanese dietro di lui che si avvicina veloce al ragazzino e lo prende in braccio.
Lui grida, trema e appena l’albanese lo stringe si tappa la bocca e trattiene le lacrime. Si gira e incrocia lo sguardo di Papille. Lui, con una parte ancora sconosciuta di sé, muove il capo rassicurandolo. Come a dirgli, qualcosa faremo. E il ragazzino, con le lacrime ancora sugli occhi, tira su con il naso.
Escono. Renato tira fuori un coltello. La porta dietro di lui si chiude.
– Ti ha pure mezzo sputtanato. Mica lo so se te ne frega di questa troia. Ora, – prende Linda per i capelli, lei tossisce, respira piano. – Ora o tu registri il video o io le taglio la gola.
Papille lo guarda, con la testa fa cenno di no. – Non far-rl-lo. Far-rò il-l video.
– Ahh. E bastava così poco mezzo frocio?
Tira fuori il telefono e lo piazza davanti a Papille.
– Te lo ricordi cosa devi dire? Mauro non ti ha avvelenato, Mauro è bravo. Mettici pure che ammetti tutti i reati per cui ti accusa la polizia. L’effrazione nello studio di quel coglione, la violenza su quella trippona sudamericana. – Ride.
Papille al pensiero di Alfonsina deglutisce. Deve aver raccontato qualcosa. Deve aver inventato.
– Non lo sai? – Renato si porta la mano alla bocca e parla in falsetto. Si tira su i pantaloni, la pancia preme i bottoni della camicia. Poi torna al suo tono normale basso, caldo.
– Quella trippona con i baffi se ne è andata in tv a dire che l’hai aggredita. Bel cazzo per te. Tu ammettilo e ti faccio venire a prendere dalla polizia dove dico io e questa non muore.
Papille china la testa. Respira. È finita pensa.
– Su la testa. Mettiti in ordine. Tieni.
Prende un secchio d’acqua da fuori la porta.
– Datti una lavata.
Papille accenna un movimento. Si alza, abbassa le mani legate e con dell’acqua scura si sciacqua il viso si ordina i capelli e si tira in piedi per farsi inquadrare dal petto fino al volto.
E racconta a fatica quanto chiesto da Renato. Lo ripete parola per parola perdendo pezzi di sé.
Distruggendo il rigore che lo ha sempre contraddistinto, la logica che ha fatto sì fosse rispettato e temuto. Perde tutti i pezzi, ha l’impressione la pelle si squami e si sciolga verso terra. Sull’orlo dell’abisso privo di struttura sente però l’opportunità di poter sparire e ricominciare.
Renato ferma il video e mette il telefono in tasca. Il coltello ancora nella mano sinistra. Si china e lo avvicina al collo di Linda. Papille lo guarda, non capisce.
– Questa rumena, è come tutti i negri che lavorano con me. Tanto codardi quelli che scappano dai loro paesi in cerca di chissà quale cazzo, tanto stupidi quelli che restano nelle loro latrine di merda.
Però sai qual è il vantaggio di gestire gente invisibile come questa?
Papille non risponde. Lo fissa negli occhi.
– Che li puoi ammazzare come cani.
E con un gesto preciso, violento, taglia la gola a Linda.