Papille, il seguitissimo critico gastronomico fuori dagli schemi, amato dal popolo e temuto dai più grandi chef, perde l’uso della lingua e del gusto per la vendetta di uno chef stellato.
Puntate precedenti
Capitolo 1 – Panace di Mantegazza
Capitolo 4 – Mignon vegani, alici, cacao e melanzana
Capitolo 6 – Pomodoro Ciettaicale
Capitolo 9 – Zuppa di pipistrello
Capitolo 10 – Tramezzino pollo e insalata all’obitorio
Capitolo 16 – Rosmarino e basilico
Capitolo 17 – Falange di granchio oceanico
Capitolo 27 – Cucciolo di cinghiale
Capitolo 30 – Crostatina alla marmellata
Capitolo 33 – Cassette di pomodoro
Capitolo 35
Croccante alle mandorle panna allo zabaione e erbe di campo
Dottoressa. Si ricorda le musicassette? Si infilavano nel walkman e si ascoltava la musica per tutto un lato. Poi andavano girate e si finiva con il sentire sempre un solo lato, più comodo. È una settimana che non ci dormo. Ho realizzato di essere esattamente come una musicassetta. Il cibo, il successo, la critica gastronomica, è la conseguenza di quanto accaduto a mio padre. Si ricorda? Le ho parlato di lui diverse volte. Da lì è iniziato il mio lato A. Il lato A della musicassetta. E va avanti da sempre. Non si è mai fermato e non credevo si potesse fermare. Da quando vengo qui da lei, è come se avessi realizzato che quella cassetta posso girarla. Esiste un lato B da vivere. Ma non so da dove iniziare. Il lato B è ancora vergine, intonso. Non so cosa significhi avere un lato B da vivere. Cambiare vita del tutto o vivere questa in maniera diversa. Perché alla fine la cassetta è sempre una, dottoressa.
Vivo recluso nel recinto della critica gastronomica. E perché? Perché mio padre era un poveraccio vessato da un mezzo cuoco e da un ristoratore?
Giorni fa ero a questa cena organizzata da due chef per l’apertura di Identità Golose. Conosce? Quell’evento in cui la cucina passa in secondo piano e gli Chef appaiono sul red carpet? Insomma. Cena a quattro mani di benvenuto diceva la locandina all’ingresso del grande salone che ospita gli stand. Come se per cucinare servissero le mani. Le mani eseguono quello che il cuore dice. È una terminologia che aborro cena a quattro mani. Lato A. Ero lì, in attesa. Avevo le mie posate come sempre. Il set che porto ovunque insieme al mio taccuino nero nella tasca interna della giacca. E cosa ho fatto? dopo averle appoggiate alla mia sinistra sul tavolo, le ho messe via. Il cameriere mi ha lanciato un’occhiata. Questo tipo era giovane, non mi ha riconosciuto. Non poteva avere idea dell’importanza del gesto. Scondinzolava a qualche vippetto in giro tra i tavoli dottoressa, distratto. Era lì che gli brillavano gli occhi di fretta insomma e non ha colto. In quel momento due signori avanti con l’età passano vicino al mio tavolo.
Uno mi riconosce, sento l’altro tentare di smentirlo perché vede che sul tavolo mancano le mie posate e il taccuino ancora in tasca, sa che io ho le mie. Tutti lo sanno.
Ecco, i due sfilano via. Io attendo. Mi sento uno tra tanti con quelle posate. Vede, temo che levando pezzo pezzo le mie abitudini, non resti niente di me. Che quel lato A sia stato costruito ad hoc per coprire. Dolore? Apatia?
Arriva la prima portata delle tre. Sento il respiro appena affaticato. Mentre prendo le posate, noto un tremolio alla mano. Usare posate altrui è un po’ come indossare scarpe di altri. Intende dottoressa?
Riduzione di frutti di bosco su pulled pork. Aspra la riduzione, penso. Si sposa appena a sufficienza con il maiale sfilacciato, cotto qualche minuto di troppo. Senza infamia e senza lode, proposta però trita e ritrita. La mano si ferma, il cuore si calma ed ecco che provo di nuovo quel disprezzo, quello stupore verso le quattro mani che non sono state in grado di cuocere bene un maiale.
Respiro. Niente posate, niente taccuino, farò a memoria. Il cameriere porta via il piatto. Ora noto nel suo sguardo timore misto a riverenza. Credo mi abbia riconosciuto, o qualcuno deve avergli detto che Papille è seduto al tavolo.
Sono seduto all’aperto, tolgo il cappello e gli occhiali. Non voglio travestimenti. Voglio il lato B della musica inizi da qualche parte. Ma niente. Giusto un altro tremolio della mano.
E chi arriva dottoressa mentre osservo la mia mano? Uno dei due Chef della serata. Mi lusinga, mi porta lui il piatto. A quella leggera barba incolta sparuta a voler fingere poca attenzione, si uniscono i capelli nero corvino e la giacca da cuoco impeccabile con il nome scritto grande e, noto, il marchio di un fornitore di cucine per ristoranti. Il venduto.
Lui non vede il mio classico taccuino, o le posate che tutti riconoscono. E affonda una battuta sul rischio di cambiare abitudini. Una battuta scaltra, ma fragile dottoressa. Eppure ha centrato il punto. Possibile un uomo sia fatto delle sue sovrastrutture? Se lui levasse quel costume, quella giacchina con le scritte, sarebbe sempre degno di attenzione che tutti i commensali, tranne me, continuano a dargli?
E io? Il lato B. Ora che cerco il lato oscuro, quello in cui non c’è certezza e che forse mi farebbe realizzare che la mia vita non sia altro che un gigante errore, sono davvero così diverso da lui?
Lei dottoressa mi fa interrogare su questioni che sarebbe bene non smuovere. Vede. Non importa quale battuta abbia fatto il cuoco, importa il fatto che abbia notato il cambiamento e ne abbia approfittato. Questo dà ragione al mio pensiero: io sono quello che faccio. Io sono temuto e rispettato e odiato per quello che faccio. Sono un riflesso del mio mestiere. Lo vedevo lo Chef scrutarmi, tentare di capire le mie intenzioni. Mi serve il piatto, la seconda portata di degustazione. Un culis di frutti rossi su maccheroni al formaggio. Capisce che abbinamento? L’idea, mi spiega muovendo la lingua per inumidirsi le labbra e sfruttando il post battuta sulle abitudini, nasce dal contrasto del concetto di pasta tra Italia e resto del mondo. La pasta è al centro dell’universo per noi italiani ma sempre protagonista di ricette tipiche, rielaborate o meno sempre quelle sono. Il culis invece smorza tutto, riporta il disequilibrio che lui ama. Controcorrente, via le abitudini e le certezze dice alzando la voce. Vede, prova ad affondare, cerca di sentirsi alternativo, diverso dai suoi simili. Ma non capisce che ora il mio non avere le solite posate o il taccuino vuole rendermi diverso da me stesso, non dagli altri. Ed è quello che auspico a lui. Perché è me che odio in fin dei conti dottoressa. E lui dovrebbe odiarsi per questo teatrino patetico.
Quando mi spiega di sentirsi come un salmone che risale il fiume in cerca dell’amore, la mano si ferma. Non trema più. Vorrei dirgli quanto triste appaia ai miei occhi. Lato A. Penso di nuovo a quanto il cibo sia un mezzo per il vuoto che circonda questi poveracci. Quanto non mi colpisca nulla di quello che cucina o dice.
Ma in quel momento arrivano le altre due mani, quelle dell’altro Chef. Più pacato, meno esplosivo.
Saluta. Io sorrido per i saluti e con un cenno lascio intendere di voler mangiare.
I maccheroni sono ben cotti, ma il tentativo è disastroso. Il culis è dolciastro e incolla il palato. Forse il paragone con il salmone ha alterato il grado dei miei zuccheri in bocca, dottoressa. Ne lascio quattro.
Bevo un sorso d’acqua. È fresca. Guardo la mano, poi le posate. Aspetto la terza e ultima portata.
Croccante alle mandorle, panna allo zabaione con erbe di campo. Con la frutta secca si vince facile. La frutta secca è un escamotage. Sono prodotti oleosi, difficili da giudicare. La croccantezza funziona, la panna allo zabaione, invece, per via dell’alcol, non ha la consistenza spumosa desiderabile. È bilanciata male. L’idea delle erbe non mi dispiace, anche se al naso gli odori di campo coprono quel bell’aroma che un croccante ben fatto rilascia quando è ancora tiepido.
Vedo alcuni occhi su di me. Li sento, sento la loro apprensione. Le loro speranze. Mi pulisco la bocca, bevo di nuovo e mi alzo dal tavolo.
Alla fine non ho recensito l’esperienza. Credo i due Chef abbiano pensato stia perdendo lo smalto, o forse dato il loro ego che mi sia piaciuta la loro proposta e non volessi elogiarli. Pensino pure che stia perdendo colpi.
Vede dottoressa, la realtà è che non ne avevo interesse. È come se per cogliere il lato B della mia esistenza debba spogliarmi del tutto. Debba abbandonare questo mestiere. E per la prima volta ci sto pensando.