Papille, il seguitissimo critico gastronomico fuori dagli schemi, amato dal popolo e temuto dai più grandi chef, perde l’uso della lingua e del gusto per la vendetta di uno chef stellato.
Puntate precedenti
Capitolo 1 – Panace di Mantegazza
Capitolo 4 – Mignon vegani, alici, cacao e melanzana
Capitolo 6 – Pomodoro Ciettaicale
Capitolo 9 – Zuppa di pipistrello
Capitolo 10 – Tramezzino pollo e insalata all’obitorio
Capitolo 16 – Rosmarino e basilico
Capitolo 17 – Falange di granchio oceanico
Capitolo 27 – Cucciolo di cinghiale
Capitolo 29
Carne o pesce?
Papille segue il giovane nella semi oscurità di un tunnel che si snoda da dietro un cartone della grande sala. Lasciano il gruppo di persone. Le voci dei poliziotti si allontanano alle loro spalle scandite dal gocciolare di acqua. Camminano veloci nei cunicoli sotto Matera. Insieme alla poca luce, anche il caldo si dissolve man mano che i due procedono.
– Tra poco usciamo di qui. Io qui ci vivo quando finisco i lavori ai campi e devo trovare un nuovo lavoro.
Papille ascolta il ragazzo mentre intorno a lui tutto si scurisce, le pareti grigio scuro, ammuffite dall’umidità, scompaiono nel buio sempre più fitto.
– Seguimi tu eh. Sempre dritto, conosco a memoria questi vicoli.
Non ci sono feritoie da cui la luce possa entrare, non si sentono rumori dall’esterno e l’eco della voce del ragazzo rimbomba a ogni parola.
– Pensa che qui sotto, all’inizio, appena arrivato, ci vivevo per giorni interi senza uscire. Perché mi dicevano che altrimenti la polizia mi spediva di nuovo a casa. E che per arruolare per le settimane di lavoro ai campi, gli albanesi vengono qua sotto a scegliere e se non ti fai trovare non lavori.
Papille segue la voce e lo sciabordio dell’acqua, non vede più nulla.
– Ah, puoi chiamarmi Sol. Solomon è troppo lungo. Mia madre era indiana e mio padre italiano non ricordo se mi chiamavano Sol loro, ma a me piace. Se ci fossero ancora mi aiuterebbero a ripagare la signora che comanda gli albanesi. Per avermi fatto arrivare qui in Italia, dico. I miei sono morti in India, ci eravamo trasferiti lì da un po’ per il lavoro di mio padre. Quattordici ore al giorno l’inverno, dodici l’estate mi fa lavorare qui la signora.
All’inizio svenivo dopo un po’. Mi risvegliavano o i calci degli albanesi o qualche compare con una secchiata di acqua. Ma comunque mi tiravano su a ceffoni. – Sospira.
Squittii lievi di topi seguono il passo dei due.
– Senti ma la ragazza con cui sei andato via dal campo è la tua fidanzata?
Sol deve avere circa sedici anni. La sua voce ancora giovane rimbomba nel cunicolo. Poi pensa a Linda. Chissà dov’è con la sua roba.
– Dico, la ragazza ce l’hai? Era lei? Io non ne ho mai avuta una ma sono innamorato. Ahh, ma tu non parli. Sì mi ricordo ora, mi era rimasta impressa questa cosa tua. Sai, se parli poco gli albanesi non si fidano, se parli troppo si stufano e ti menano. Io ho imparato a parlare il giusto.
Il buio totale disturba Papille. Respira aria pesante senza sentirne alcuna nota aromatica. Prova a ricordare l’odore di chiuso, di sporco, dei sentori di chi vive là sotto. Un potente rombo distrae i due. Dura pochi secondi e poi sfila via da qualche tunnel lontano. La metropolitana, pensa Papille.
– Che poi la prima volta che sono svenuto, uno degli albanesi mi ha preso in giro dicendo che ero “fracico”. Sì ha usato questo termine. Faceva caldo. Tanto. E dopo cinque ore a raccogliere pomodori sono caduto a terra come una pera. La sera febbre e vomito. Poi ti ci abitui. I venti euro a fine giornata ti ritirano su. Il resto della paga lo tengono loro per ripagare il viaggio.
Papille pensa a Sagripanti, all’Olimpo su in alto del cibo. Pensa alla miseria di questo ragazzo.
In lontananza intravedono della luce e il buio sembra indietreggiare accompagnato dai primi rumori dell’esterno.
– È lì che andiamo. Poi saliamo su e la polizia non ci trova. Sei conciato male eh, al campo si è parlato molto di te. Di come sei scappato e ti sei portato dietro quella tipa. Ma è la tua fidanzata vero?
– N-no. – Risponde Papille.
Il cunicolo finisce in una galleria illuminata da alte feritoie che danno sull’esterno.
Papille pensa a come tornare a Milano, non ha più nulla con sé e non ha idea di dove rintracciare Linda.
– Io sono innamorato ti dicevo. Ma non posso fidanzarmi perché lei mica lo vede uno come me. È una ragazza bellissima che lavora in un bar qui sopra in centro e io vado a guardarla tutte le volte che posso.
– L-la conquis-ster-rai. Ved-drai. – È il massimo che riesce a dirgli Papille.
I due arrivano a un cancello verde. Il ragazzo traffica con la catena che anche qui, come per l’entrata, è solo arrotolata.
La luce gli ferisce gli occhi, non riesce a tenerli aperti. Salgono le scale fino al marciapiede. Le macchine, i clacson le persone che parlano distraggono Papille. Una volante della polizia è ferma dalla parte opposta della strada. Abituatosi alla luce Papille la nota, guarda il ragazzo e si allontanano nella direzione opposta.
L’unica cosa che ricorda è l’indirizzo di quel Carletti, il commercialista di Sagripanti che se la intende con i due albanesi. O riparte da lì o fa l’autostop fino a Milano. L’autostop. Pensa alla macchina che noleggiava per muoversi fuori dall’Italia. Da solo, sempre.
Viaggiare in condivisione lo atterrisce. Dover parlare del più e del meno, doversi confrontare, capire le intenzioni. Dare un’immagine di sé così lontana dalla realtà. Sporco, con vestiti logori, ricercato.
Sente un tonfo, un rumore sordo di un peso che finisce a terra. Si gira. Solomon è sdraiato sul marciapiede privo di sensi.
Si guarda intorno, alcuni passanti si avvicinano. La macchina della polizia si è allontanata.
Papille si china su di lui, lo muove e lo chiama ma il ragazzo non risponde.
La pelle improvvisamente è pallida e umida di sudore freddo. Il battito sembra aumentato e Papille osserva un tremolio alle mani. Il respiro è veloce, serrato.
Intorno si forma un capannello di gente. Una donna senza che le venisse chiesto, porge a Papille una bottiglietta d’acqua.
– È suo figlio? Gliela dia.
Papille fa cenno di no ma prende la bottiglietta e rovescia dell’acqua sul viso di Solomon.
– C’è un ospedale a duecento metri da qui, un presidio distaccato dell’ospedale Madonna delle Grazie di Matera. Fa prima a portarlo lei che a chiamare un ambulanza.
Papille riflette. All’ospedale farebbero domande, forse chiamerebbero addirittura la polizia. Non può.
Cerca di rimanere con il volto verso Solomon, non solo per capire come agire, ma anche per paura di essere riconosciuto.
Rovescia altra acqua sul viso del ragazzo e prova a farlo bere.
– Deve portarlo all’ospedale! Cosa aspetta lo porti subito! – Grida un anziano dal gruppetto di persone intorno.
– Io ho chiamato un ambulanza se non si sveglia almeno arriva qualcuno!
Papille si alza in piedi, prende su il ragazzo da terra.
– Non lo tocchi invece, aspetti l’ambulanza! – Una signora ferma Papille.
Lui non alza la testa. Continua a tenerla su Solomon tra le sue braccia.
– Aspetti, lo lasci. Sono un medico. Una giovane donna mette una mano sulla spalla di Papille.
– Lo metta giù.
Papille senza girarsi lascia il corpo del ragazzo a terra. Il viso è ancora pallido e la pelle appiccicosa e fredda.
La donna gli apre la bocca, illumina la gola con il cellulare. Poi gli alza la maglietta sporca, tasta il petto e la pancia.
– Il ragazzo è diabetico? Le è risultato affaticato o in stato confusionale nell’ultimo quarto d’ora?
Il loro ultimo quarto d’ora non è stato poi così calmo, pensa Papille. Ma non aveva notato alcun atteggiamento anomalo, parlava molto ed era buio. Non ha idea di cosa rispondere.
Fa cenno di no, fingendosi anche lui in stato confusionale per lo shock. È lucido, ma in pensiero.
– Potrebbe essere una crisi ipoglicemica. Serve somministrargli del glucosio.
Il ragazzo è scosso da lievi tremolii.
– Lei è il padre?
Papille ripete anche a lei di no.
La donna lo guarda, osserva l’abbigliamento con curiosità, sospettosa. Ma non lo riconosce. Papille abbassa lo sguardo.
Sente le sirene dell’ambulanza avvicinarsi. Intorno le persone sono raddoppiate. L’ambulanza arriva, le sirene smettono di gridare e due paramedici scendono dal mezzo. Poco lontano nota una macchina dei carabinieri avvicinarsi. L’ambulanza e tutta la gente devono aver incuriosito i carabinieri al suo interno.
Lo dottoressa è intenta a parlare con i paramedici. La volante è sempre più vicina e Papille si fa indietro. Nessuno lo guarda perché gli occhi sono tutti sul ragazzo e su chi gli salverà o meno la vita. Papille indietreggia ancora, si immerge nella folla.
I carabinieri, scesi dall’auto, parlano con i paramedici e il giovane medico, dopo aver scambiato qualche parola si gira e indica il vuoto lasciato da Papille.
Lui vede i carabinieri attivarsi, guardare tra le persone. La donna anche si alza mentre i paramedici trafficano sul ragazzo.
Da dove è Papille, dietro una fitta fila di curiosi, non possono vederlo. Vede la donna issarsi in punta di piedi. Poi parlare con i carabinieri. Uno dei due torna alla macchina.
Staccarsi ora dal gruppo per allontanarsi vorrebbe dire, pensa, dare nell’occhio. Pensa a Solomon.
Così resta fermo. Fin quando l’uomo che aveva gridato di sbrigarsi a chiamare l’ambulanza, a voce alta, indica Papille gridando:
– È lì l’uomo che accompagnava il ragazzo che temporeggiava!
Papille non vuole lasciare Solomon da solo, pensa che farsi arrestare vorrebbe dire chiudere la partita e non poter neanche aiutare il ragazzo.
Il carabiniere più vicino si muove, scansa la prima fila di gente. L’altro si allontana dalla macchina per seguirlo. Papille indietreggia. Tutti si girano a guardarlo.