Papille, il seguitissimo critico gastronomico fuori dagli schemi, amato dal popolo e temuto dai più grandi chef, perde l’uso della lingua e del gusto per la vendetta di uno chef stellato.
Puntate precedenti
Capitolo 1 – Panace di Mantegazza
Capitolo 4 – Mignon vegani, alici, cacao e melanzana
Capitolo 6 – Pomodoro Ciettaicale
Capitolo 9 – Zuppa di pipistrello
Capitolo 10 – Tramezzino pollo e insalata all’obitorio
Capitolo 16 – Rosmarino e basilico
Capitolo 17 – Falange di granchio oceanico
Capitolo 27 – Cucciolo di cinghiale
Capitolo 30 – Crostatina alla marmellata
Capitolo 33
Cassette di pomodoro
Il comando dei carabinieri di Matera centrale dista pochi minuti. Papille continua a guardare il portachiavi a coltellino svizzero incustodito tra i due sedili.
Il carabiniere anziano estrae la foto della madre dalla cornicetta penzoloni sul cruscotto. La bacia.
La radio gracchia.
– Maresciallo qui centrale, rientrate.
– Stiamo effettuando un arresto. Arriviamo.
La voce femminile si schiarisce, gracchiando.
– Dovete rientrare e svincolare l’arresto.
– Ma come? Cosa significa.
La donna insiste.
– Rientrate, è un ordine.
Il maresciallo deglutisce. Sua madre non approverà. Pensa. Non può raccontarglielo. Se glielo dovesse raccontare lei gli ricorderebbe che inetto senza palle sia.
– Ma che succede collega? – Chiede alla radio.
– Maresciallo. Dovete rilasciare la persona con voi e rientrare.
Guarda la foto della mamma. La sfiora. Si scusa. Guarda Papille torcendo il collo.
– Appuntato, spenga la macchina. – Dice.
Il giovane ha ancora della polvere di crostatina sulla divisa, mette la freccia e si avvicina al marciapiede.
Il maresciallo scende dall’auto in silenzio. Apre la portiera e fa cenno a Papille di scendere. Lui lo guarda. Nel volto riposa una delusione grande come quella di un bambino, Papille la vede; coglie la paura, la possibilità di renderla felice soffiata da qualcuno più potente di lui. Immagina.
Scende, l’uomo lo guarda con insistenza. Vorrebbe ricacciarlo dentro e abbracciare la mamma con lui infiocchettato sulla porta.
– Ma che è successo maresciallo? – L’appuntato chiede da dentro la macchina senza ricevere risposta.
Guarda Papille che si allontana, poi risale in macchina.
– Ti tengo d’occhio. Qualsiasi santo tu abbia in paradiso, sei nella mia Matera. Mamma… – Bofonchia.
Papille si ferma distante dall’auto. Non capisce come sia possibile l’abbiano rilasciato, si tocca la barba.
Davanti a lui una strada si snoda in discesa, contromano in quel momento vede arrivare un auto.
È una Mercedes scura, senza targa. Sale veloce, punta Papille. Lui indietreggia, la macchina si avvicina con il muso metallico e i fari blu di posizione accesi.
Papille immobile, viene trafitto d’un tratto dal pensiero di volerla far finita lì. La salita verso la normalità si fa sempre più ripida. Pensa che non esiste un momento giusto per morire, a meno che tu non stia compiendo un gesto eroico. Quindi un momento vale l’altro.
La macchina a pochi metri accelera, il parabrezza è tutto un riflesso del sole rosso arancio che sta tramontando. All’accelerata però segue il freno che stride, cigola. La Mercedes rallenta come un cavallo cui sono state tirate le briglie. E sterza.
Per alcuni secondi dalla macchina non si muove nulla. Poi la portiera si apre, esce un uomo.
Papille si tocca la barba, lo guarda.
– Contento di rivedermi eh bruto coglione. Sali. – È di Adrian la voce.
Papille coglie di nuovo quell’aria sconfitta di chi il potere lo ha solo con i più deboli. Entra in macchina. L’albanese lo spinge con forza sul sedile.
Scivola tra le gambe di un uomo. Tempo di alzarsi che una mano gli stringe la barba mentre un’altra mano cinge il collo. Sente la pelle ruvida, solcata di calli duri.
Adrian deve essere passato davanti. Sente il rumore della portiera che si chiude.
– Hai visto, amico? Qui comandiamo noi, pezo di merda.
Sente lasciare la presa alla barba, ma non al collo. Una mano gli infila un cappuccio, la lana è calda, a contatto con la pelle gli solletica il volto.
Non reagisce. Qualsiasi evenienza, pensa sia meglio del carcere.
Per tutto il tragitto non vede, sente cambiare il terreno su cui la Mercedes scivola, da asfalto a sterrato, ma non vede nulla. Gli albanesi parlano nella loro lingua.
Quando la Mercedes si ferma, la testa di Papille smette di ciondolare di colpo. Un forte schiaffo sulla nuca lo desta dai pensieri. Ci mette alcuni istanti. Come se dovesse riemergere da un ricordo denso.
– Siamo arivati. Scendi.
La portiera si apre. Fuori dall’auto, Adrian tira Papille per il braccio. L’odore di terra umida si mischia con la dolcezza del glicine tutto intorno, ma Papille non può sentire nulla. Eppure per via dell’aria tersa, intuisce di essere in campagna.
– Com-me avet-te fat-to a l-liber-rar-rmi?
Un calcio all’altezza dei lombi lo spinge a terra, in ginocchio.
– Sta zitto. Tu non fa nesuna domanda. Questa volta muori. Sai da quanto ti tengo d’ochio?
Papille si rialza con le ginocchia doloranti. Pensa che mica sia possibile una bestia come questa possa avere alcuna qualifica o capacità per realizzare qualsiasi piano. Pensa a Sagripanti o a qualcuno vicino a lui.
Del fumo denso, insapore, filtra dal cappuccio. L’albanese deve essersi acceso una sigaretta.
– F-fumar-re uc-cide.
Un altro calcio. Questa volta sulla gamba destra. Poi una mano lo prende per il collo, lo stringe.
– Parla ancora e ti riempio bocca e culo di tera finché no c’hai più respiro e ti caghi dentro. Mongoloide.
– Ma t-ti se-nti come par-rli? N-no che non m-mi uccid-erai. Altr-riment-i c-ci finisci tu sot-to terra.
La rabbia scivola nella bocca di Papille e sembra oliare il contatto tra lingua e resto della bocca, migliorando la pronuncia.
L’albanese non si muove. Stringe con maggiore forza la presa. Estrae un coltello e glielo punta alla gola.
– D-dai. Taglial-la. – Incalza Papille.
La pressione incide la pelle, una minuscola goccia di sangue scivola fino alla clavicola lasciando dietro di sé una scia rosso rubino.
Adrian molla la presa.
– Capito? –
Ripone il coltello e lascia Papille.
Mentre sente il cigolio di una porta, pensa che immaginava l’albanese non sarebbe andato oltre. Entrano.
Adrian di nuovo lo spinge a terra. Questa volta spinge le ginocchia sulla sua schiena.
– Se io preme, polmoni smette di funzionare. E tu respira poco, quanto basta per non morire. Ma sensazione è di morire.
Papille ripensa al momento opportuno di morire. Uno vale l’altro, ma questo proprio non lo è. Il respiro inizia subito ad affaticarsi per via della pressione. Adrian preme. Papille pensa allo squallore che lo ha investito da quando si trova in Basilicata. Il respiro rallenta ancora e un rantolo esce dalla sua bocca.
– Vedrai. Quando Renatino ariva. Io sono più forte qui, ma Renatino vedrai. La lingua ti stacca e ti ficca in culo.
Lascia la presa. Papille respira singhiozzando come se stesse riemergendo da sott’acqua.
– Ti st-tacca l-la ling-gua e t-te la fic-ca nel culo. – Sussurra. La cadenza di un albanese che parla italiano è oscena. Pensa. Riassume tutta la loro miseria.
Due mani sfilano il cappuccio di Papille che sbatte gli occhi. Si gratta il volto.
È all’interno di un grosso casolare. Enormi pallet di cassette di pomodori, salse, pelati, contornano il perimetro. Nel naso lo punge un aroma acre, non riesce a decifrarlo perché non è in grado; ma l’odore deve essere davvero concentrato, pensa.
La sensazione di percepire anche solo un sentore lieve lo rilassa. Se non muore, se non finisce in carcere, farà il possibile per curarsi.
Le casse di pomodoro con la scritta ai lati “Ciettaicale” sfiorano il soffitto.
Alla base, sulla destra della pila di cassette, c’è una porta che sembra dare su una guardiola ricavata all’interno del casolare.
– Ti piace pomodoro? Questi quintali ci costa raccoglierli centocinquanta euro per giorno. Come puttana. Un cazo. Solo che puttana prende cazo. – Ride di gusto.
Papille conta almeno cento cassette per fila.
– Ci lavorano i negri e gli poveraci tipo te. Centocinquanta, ma diviso dodici persone e guarda che lavoreto.
Adrian ride di nuovo. Prende Papille per le braccia e lo trascina fino alla piccola porta. La apre.
– Eco altro stonzo per fare compagnia.
Una luce tenue di una lampadina illumina la guardiola. Papille intuisce non sia il posto del guardiano, ma una specie di piccola cella. Ci sono due persone all’interno, due materassi e un secchio usato con buone probabilità, pensa, al posto della tazza.
Uno dei due, indiano, non ha un braccio. All’altezza del bicipite è reciso di netto e incartato in bende bianche striate di rosso. Dalla parte opposta della stanza, seduto per terra e sporco, c’è un bambino dai capelli neri e lo sguardo fisso nel vuoto.
– Renato ariva. Metetevi carini e no vi muovete. – E ride ancora l’albanese.