Papille: Capitolo 28 – Bacon e uova

I balconi con i panni stesi sembrano dentiere su grossi volti di cemento pronte a mordere.

Papille, il seguitissimo critico gastronomico fuori dagli schemi, amato dal popolo e temuto dai più grandi chef, perde l’uso della lingua e del gusto per la vendetta di uno chef stellato.

Puntate precedenti

Capitolo 1 – Panace di Mantegazza

Capitolo 2 – Cappio

Capitolo 3 – Ferite

Capitolo 4 – Mignon vegani, alici, cacao e melanzana

Capitolo 5 – Strazzata lucana

Capitolo 6 – Pomodoro Ciettaicale

Capitolo 7 – Battuto d’occhio

Capitolo 8 – Sardine

Capitolo 9 – Zuppa di pipistrello

Capitolo 10 – Tramezzino pollo e insalata all’obitorio

Capitolo 11 – Lampare

Capitolo 12 – Pesce fresco

Capitolo 13 – Entrée

Capitolo 14 – Mani nel sacco

Capitolo 15 – Pinzimonio

Capitolo 16 – Rosmarino e basilico

Capitolo 17 – Falange di granchio oceanico

Capitolo 19 – Paella

Capitolo 20 – Menabrea

Capitolo 21 – Latte materno

Capitolo 22 – Mela

Capitolo 23 – Sangria

Capitolo 24 – Peperoncino

Capitolo 25 – Crema di caffè

Capitolo 26 – Cuore di maiale

Capitolo 27 – Cucciolo di cinghiale

Capitolo 28

Bacon e uova

I proprietari del bar si stringono l’uno all’altra. Papille è uscito di corsa. La polizia sgomma sulla strada mentre i due anziani si compiacciono. La cosa giusta. Pensano entrambi. Fare quanto sia in loro potere per rimanere candidi in qualsiasi eventualità la vita li infili, insieme. Papille lo riconoscerebbe chiunque abbia un minimo di interesse per la cucina e i giornali giù al sud si leggono più di quanto si pensi. Quella sudamericana intervistata o di qualsiasi nazionalità fosse, lo aveva detto chiaro al giornalista: aggressione.

E le donne non si toccano neanche con un dito avevano commentato i coniugi. Che il successo abbia portato in seno la follia, è sicuro. Aveva suggerito la moglie. Speriamo lo becchino. Gli ha dato sicuro alla testa, peccato. Aveva aggiunto il marito.

Quando poi se lo sono visto entrare al bar tutto trasandato, quasi non ci credevano. Eppure è bastato un cenno. Un’intesa durata quarantotto anni di matrimonio appesa in una foto della cerimonia dietro al bancone. Via a chiamare la polizia con discrezione.

E poi di lì non si muovono. Inchiodati sulle assi del retro banco da tanti anni quasi quanti ne hanno. Papille corre via e loro fermi, l’orologio alle spalle scandisce il tempo con un tic, un solo altro cliente che consuma il miglior bacon della città con uova strapazzate seduto in disparte. Non è per far parlare del bar e tirar su le vendite che il marito ha chiamato la polizia. Andava fatto.

Papille corre sul marciapiede. Si lascia alle spalle il bar ed entra in un vicolo dove due clochard si tirano in piedi quando lo vedono. Il vicolo è chiuso tra le mura dei palazzi, stretto in una morsa grigia di facciate incrostate. I balconi con i panni stesi sembrano dentiere su grossi volti di cemento pronte a mordere. I due clochard guardano Papille. Sono giovani. Stavano mangiando del pane. Papille osserva con attenzione. Sono in piedi, rigidi davanti a un materasso chiazzato di giallo avorio, bucato ai lati e con qualche piuma che svolazza intorno per via del salto in piedi. Hanno una scatoletta di fagioli borlotti per uno, del pane raffermo e due bottiglie di Tavernello. A guardarli in viso sono nord africani, giovani. Papille non sa riconoscere quanto giovani, di certo hanno abiti luridi e sono sporchi. Uno dei due ha il volto gonfio, parte della testa ha una rientranza innaturale all’altezza del lobo occipitale, come un pallone sgonfio che non ha più ritrovato la sfericità naturale. L’altro è basso, senza scarpe vestito di panni stracciati. Papille allunga le braccia, fa cenno di non volerli disturbare, di rimanere fermi. La polizia si avvicina. Sente sbattere le portiere.

In carcere non c’è mai stato. Se lo arrestassero adesso ci finirebbe senza dubbio, pensa. Il caldo gli secca la gola, tossisce. I due sbandati gli fanno cenno di seguirlo. Papille si guarda alle spalle, i poliziotti saranno lì a momenti. Annuisce. Iniziano a correre tutti e tre. Svoltano alla fine del vicolo su una via più grande. A poche decine di metri uno dei due clochard che corre zoppicando, con rantolii grotteschi indica delle scale simili a quelle di una stazione metropolitana ma senza segnali.

Papille fatica. È incuriosito dalla solidarietà manifestata dai due. La salivazione aumenta e inumidisce la lingua arida, il palato è secco e la sensazione in bocca lo irrita. Alla sete si somma questa arsura che prima dell’incidente non conosceva. I tre raggiungono il sottopassaggio e si infilano per le scale. Gradino dopo gradino l’immondizia aumenta. Alla fine della discesa un grosso cancello arrugginito nero e grigio sbarra la strada. Papille guarda i due che a malapena si reggono in piedi. Ha il cuore affaticato che batte veloce. Loro trafficano con la grossa catena arrotolata tra le ante del cancello e la sfilano. Spingono velocemente un’anta e fanno cenno a Papille di entrare.

Lì per lì, non si muove. Intorno ha avanzi di cibo, plastica, immondizia, chiazze scure sui muri. Dentro al cancello la luce filtra a malapena, si intravede un corridoio scuro. I due lo incalzano. Papille guarda su per le scale e i poliziotti ancora non si vedono.

Potrebbe risalire e correre in un’altra direzione. Fa un passo indietro. Poi un altro. I due clochard, prima lo storpio poi l’altro, entrano. Papille si tocca il volto, la barba cui non si è ancora abituato gli gratta le mani. Se dovesse sbagliare, essere preso tornando indietro, perderebbe la possibilità di ritrovare Linda, le prove raccolte e il nesso con Sagripanti, al pensiero dello chef Papille stringe i pugni. È lui il suo vero obiettivo. Scende di nuovo i due gradini ed entra.

Il corridoio in lontananza è appena illuminato. Dopo essersi richiuso alle spalle il cancello, il clochard messo meglio riavvolge la catena. Di poliziotti non c’è traccia.

Papille avanza, i due lo prendono per le braccia come a volergli indicare la via. Lui si divincola e si libera. Camminano per qualche decina di metri, il corridoio deve essere un vecchio sottopassaggio in disuso. A Papille sembra in lontananza sia collegato ad altre scale che tornano in superficie, si rilassa in un sospiro di sollievo. Allunga il passo. È buio, ma due lumini hanno una lieve fiammella che illumina appena il tunnel.

L’odore deve essere insostenibile, pensa mentre percepisce la cappa di calore tutta intorno e passo dopo passo i piedi posano su materiali di ogni consistenza. Verso l’uscita, i due nord africani si fermano e fanno cenno a Papille di girare. Non si era accorto del cancelletto che dà su un corridoio più piccolo, laterale, che svicola via verso l’interno. Lui fa cenno di no e indica l’uscita. Loro invece accennano entrambi un sì e lo esortano a seguirli, a entrare per quel cunicolo alternativo, poi il tipo con la testa ammaccata si fa avanti e lo apre. È buio. Dal fondo del corridoietto sembra arrivi un vociare, rumori di ferraglia. Papille guarda i due che con un gesto lo esortano a muoversi. Uno dei due indica il cancello da cui potrebbero uscire. Mima la pistola dei poliziotti e indica l’entrata e poi punta il dito su loro tre. Papille capisce che forse i poliziotti sanno di quel sottopassaggio e che potrebbero aspettarli dall’altra parte, senza addentrarsi però.

Il piccolo corridoio li costringe a camminare in fila. Papille è il primo, sente con loro alle spalle tutta la sua vulnerabilità sulla schiena. Quell’eventualità gli preme prima sul petto e poi gli solletica la pelle.

Ma non succede niente. Dopo diversi minuti di cammino il vociare si alza. Lo sferragliare di utensili, padelle sembra alle orecchie di Papille, si leva nel buio appena combattuto da qualche altro lumino sparso sulla via.

Poi arrivano alla sala grande. Un grosso stanzone privo di areazione illuminato da torce elettriche alimentate da un generatore. Decine di persone si fermano e abbandonano le loro attività.

Credeva solo New York avesse il rovescio sotterraneo della vita. Individui per lo più mal messi a una prima occhiata, di nazionalità disparate ma con buone probabilità Bangladesh, Nord Africani, qualche sud americano osserva Papille. Sulla destra sono accatastati grossi sacchi che trasbordano indumenti e coperte, alcuni clochard sono riversi a terra persi nel sonno o forse ubriachi. Papille non si muove. Perché lo hanno aiutato e portato fin qui? Pensa.

Le persone li guardano, guardano i due accompagnatori e poi Papille. Saranno sì e no una trentina. Si avvicinano tutti. Uniti in equilibrio tra curiosità e qualcos’altro che Papille non comprende. Sono stretti, sono una famiglia pensa. Ci sono bambini, donne, anziani, nessun bianco, nessun italiano. Alcuni fornelli a gas da campeggio scaldano piccole padelle in cui bacon e uova soffriggono annerendosi.

Il gruppo si avvicina ancora. Scruta compatto Papille. Un uomo prende una vaschetta di plastica da terra e gli si avvicina. È certo nessuno possa riconoscerlo lì, pensa. L’uomo allunga le mani e porta questa vaschetta senza coperchio sotto il naso. È unta, osserva Papille, contiene della carne ammuffita con verdure. L’uomo infila una mano e prende un po’ delle verdure. Papille nota minuscoli vermi bianchi strisciare nel verde scuro. A pochi passi da lui i ragazzini si fanno avanti e tutti gli altri girano intorno allungando le mani, lo toccano. Sente le mani nei pantaloni in cerca di denaro, la maglietta che si sbrillenta tirata da ogni lato. Non c’è violenza o aggressività, nota Papille, ma disperazione. Fame.

Sul fornello il bacon rischia di carbonizzarsi, sono quantità per non più di dieci persone e loro sono trenta.

La mano nera di sporcizia dell’uomo è a pochi centimetri dalla bocca di Papille che non può sentire odore, ma ha la sensazione di percepire lo strisciare dei vermi. Tira indietro la testa.

Il contatto fisico lo disturba, stringe le palpebre in una smorfia di dolore di sopportazione necessaria. 

– Io lui lo conosco fermi!

Apre gli occhi. Un ragazzino piccoletto e vispo si fa strada. Le mani si staccano da Papille. L’uomo rimette il cibo nella vaschetta di plastica.

– Lui ha salvato una donna giù a Tolve. Amico io sono Solomon, ti ricordi? Quello che ti diceva che se parlavi bene italiano ti salvavi la pelle. Non sei andato così lontano eh?

Papille se lo ricorda. Lo guarda chiedendosi cosa ci facesse lì visto che lo ricorda l’ultima volta nella casa ammassato con altri braccianti.

– Lui non parla, ha un problema alla lingua. – Incalza il ragazzo agli altri. – Hai qualche spiccio per noi?

Papille fa cenno di no aprendo le braccia.

– Allontanatevi, non ha niente.

Il bacon che Papille intravede è quasi nero. Le uova sono sbattute in grumi giallo scuro.

La quantità di sporcizia intorno ai fornelli, accatastata sui muri è difficile da quantificare pensa Papille.

– Sono qui perché non ho più quel lavoro al campo. Gli albanesi hanno fermato tutto.

Lo guarda. Il ragazzino ha gli occhi ancora vispi, forse pensa, può aiutarlo a ritrovare Linda, quel Carletti e riprendere quanto lei gli ha tolto per chiudere la partita con Sagripanti.

Apre la bocca, tossisce. Il fumo del bacon gli gratta la gola. Non ne sente aroma o profumo. – Fermi tutti. Polizia!

Dal piccolo ingresso della sala rimbomba la voce di un poliziotto. La voce di un uomo giovane che vibra di soddisfazione per aver stanato i topi, ha il timbro chiaro e sicuro. Papille si volta, in un istante tutti iniziano a raccogliere le loro cose e a sparpagliarsi. Quattro poliziotti si addentrano nella sala e manganelli alla mano cercano di riordinare il gruppo per non disperderlo.

– Vieni con me, c’è un’uscita che ci porterà lontano da qui in tempo.

Il piccolo Solomon tira Papille per il braccio. Lui lo guarda, la gente intorno schizza come impazzita e i poliziotti sembra non puntino ancora su loro due. Fa un cenno di assenso e i due, insieme, iniziano a correre.

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Andrea Fassi

Pronipote del fondatore del Palazzo del Freddo, Andrea rappresenta la quinta generazione della famiglia Fassi. Si laurea in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali coltivando l’interesse per la scrittura. Prima di seguire la passione di famiglia, gira il mondo ricoprendo diversi ruoli nel settore della ristorazione ed entrando in contatto con culture lontane. Cresciuto con il gelato nel sangue, ama applicare le sue esperienze di viaggiatore alla produzione di gusti rari e sperimentali che propone durante showcooking e corsi al Palazzo del Freddo. Ritorna al passato dando spazio al valore dell’intuito invece dei rigidi schemi matematici in cui spesso oggi è racchiuso il mondo del gelato. Combina la passione per il laboratorio con il controllo di gestione: è l’unico responsabile del Palazzo del Freddo in qualità di Amministratore Delegato e segue la produzione dei locali esteri in franchising dell’azienda. In costante aggiornamento, ha conseguito il Master del Sole 24 Ore in Food and Beverage Management. La passione per la lettura e la scrittura lo porta alla fondazione della Scuola di scrittura Genius nel 2019 insieme a Paolo Restuccia, Lucia Pappalardo, Luigi Annibaldi e ad altri editor e scrittori. Premiato al concorso “Bukowsky” per il racconto “La macchina del giovane Saleri”, riceve il primo premio al concorso “Esquilino” per il racconto “Osso di Seppia” e due menzioni speciali nei rispettivi concorsi “Premio città di Latina” e “Concorso Mario Berrino”. Il suo racconto “Quando smette di piovere”, dedicato alla compagna, viene scelto tra i migliori racconti al concorso “Michelangelo Buonarroti”. Ogni martedì segue la sua rubrica per la scuola Genius in cui propone racconti brevi, pagine scelte sui sensi e aneddoti dietro le materie prime di tutto il mondo. Per la testata “Il cielo Sopra Esquilino” segue la rubrica “Esquisito” e ha collaborato con il sito web “La cucina italiana” scrivendo di gelato. Docente Genius di scrittura sensoriale, organizza con gli altri insegnanti “Il gusto per le storie”, cena evento di degustazione di gelato in cui le portate si ispirano a libri e film.

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