Freddo: Capitolo 33 – Paradenti

Quando sali sul ring, la paura che senti è per l'aggressività del tuo avversario o per la tua?

Nei capitoli precedenti:

 

Trentatreesimo capitolo – Paradenti

 

Oggi

Ho tagliato la parte finale del paradenti, quella che tocca l’inizio della gola all’altezza dei denti del giudizio, perché mi causa dei conati ogni volta che lo indosso. E per salire sul ring non è la sensazione migliore che ti possa accompagnare.

Lo taglio per comodità, fino a ieri credevo fosse una questione ergonomica ma questa mattina, prima di venire qui in palestra, ho capito che non è così. Perché questa mattina, durante la seduta del mercoledì con la mia dottoressa, lei finalmente mi ha portato a capire il senso. Le devo davvero molto, penso, mentre arrotolo le fasce sulle mani.

Salire sul ring le prime volte è stato complesso, ho iniziato qualche mese dopo il ritorno dall’Ucraina.

Senza paradenti è impossibile combattere. Dovendolo indossare per forza, non resistevo che pochi minuti.

Lassù sul ring sei da solo, in un quadrato in cui un’altra persona vuole picchiarti, tu non puoi scappare e, in teoria, dovresti picchiare a tua volta.

Tornato dall’Ucraina ho iniziato a voler provare di più a sentire il reale valore della boxe, così ho iniziato ad allenarmi con maggiore impegno e ho provato a fare qualche scambio sul ring.

La radio della palestra passa Back to Black di Amy Winehouse, l’ho ascoltata ininterrottamente nell’ultimo periodo.

Arrotolo le fasce, prima la mano sinistra. Queste riprese che faccio sono scambi sul ring amichevoli, ma pur sempre completi. Io uno scontro simile, così diretto, non l’ho mai retto in nessuna circostanza, sempre meglio svicolare le situazioni di allerta, lo scontro non me lo sono mai concesso.

A proposito di Ucraina, è lì che mi sono paragonato a un velivolo stealth. Figurati se un aereo come quello affronterebbe mai muso a muso un caccia F-14.

Buffo quello che mi ha chiesto la dottoressa durante la seduta di qualche ora fa.

– Secondo lei, Andrea, come fanno gli animali, per esempio tigri, gatti, cani, quando stanno all’erta?

Io ci ho pensato un po’.

– Ringhiano, mostrano i denti.

In effetti, tenere serrati i denti e mostrarli è un controllo della tensione completo, è il preludio dello scontro.

Stringo bene le fasce e prendo i guantoni, Amy Winehouse ha il dono di entrarmi dentro i polmoni con la voce mentre respiro.

Il punto è che ho il dubbio sia paura, quindi il conato causato dal paradenti è un allarme per dire “non puoi farcela”. Ma anche questo, questa mattina, me l’ha smentito la dottoressa.

– L’avversario per lei, sul ring, è il riflesso della sua, di aggressività: il paradenti è contenitivo. Su un ring dove non ha scampo e deve affrontare per forza di circostanze il suo avversario, lei teme la sua, di violenza.

Sdraiato sul lettino, sono rimasto immobile. Io non ho paura dell’altro, o delle persone che ho allontanato nella mia vita o evitato a costi che pagherò per sempre. Io ho paura di me, della portata della mia rabbia, di quello che sarei capace di fare.

Semplicemente nessuno potrebbe sostenerla, è sempre stato così fin dalla nascita e il conato è un’allerta per mettere me al sicuro dal pericolo di vedere davvero quello che la rabbia copre, il caldo, bollente dolore sommerso da lastre di ghiaccio.

Sto in piedi sotto il ring con le fasce che stringono le mani.

And life is like a pipe

And I’m a tiny penny

Rolling up the walls inside.

Amy Wineahouse canta, io sento i suoi capelli spessi sul viso e la sua voce unica che mi mette i brividi dritta nei polmoni, come se la respirassi.

Prendo il paradenti. Inspiro e lo incastro sul palato. Niente. Neanche un conato, non mi dà fastidio; stringo i denti, nessun conato. Incredibile. Respiro con il naso, salgo sul ring. Davanti a me questa volta non ho il mio migliore amico Luigi, uscito dalla lampada Genius, ma un ragazzo poco più giovane di me, molto più allenato di me, sportivo quanto me ma desideroso di tritarmi per un agonismo ben definito sul suo volto.

Non ho alcuna paura della sua superiorità, non ne ho mai avuta, vedo semplicemente meglio me stesso e i conati sono spariti.

Le uniche due volte che abbiamo combattuto uno contro l’altro, io sono solo fuggito, ho schivato i suoi colpi in maniera goffa, mi sono buttato ai lati o sulle corde per evitarlo prendendo qualche pugno e dandone sì e no tre o quattro. Lo guardo dritto negli occhi, mi triterà, ma non fuggirò di mezzo metro e prenderò fino all’ultimo cazzotto. Sento del calore nel petto.

Ci tocchiamo i guanti, segno che la ripresa inizia. Lui sa che, per quanto anche io ormai sia allenato, mi muovo più di lui perché sono più agitato quindi mi stanco prima. Questa volta invece resto fermo. Ci sfioriamo con qualche jab, i miei sono migliorati, ultimamente non sono più mozzarelline. Lo colpisco dritto in faccia e invece di vergognarmi per aver portato a segno un colpo, continuo a guardarlo e il calore divampa dal petto fino alle braccia. Lui risponde, mi scarica addosso una serie di jab e diretti, io un po’ paro un po’ li prendo e rispondo. Il paradenti è come se non ci fosse, io invece ci sono, caldo, sento i guantoni freddi schiacciarsi sulla mia pelle rovente e sul naso e sulle tempie.

Ci sono per tutte le volte che sono scappato, per le volte in cui sono andato via e per cui non potrò mai più rimediare, ferite che porto dentro che non si rimargineranno mai. Penso al foglietto che ho ingoiato in Ucraina e mi distraggo. Un diretto forte come un sasso mi prende dritto in faccia tra naso e caschetto, poi un jab e un altro diretto.

Mi gira la testa e le braccia mi cadono lungo i fianchi, non faccio in tempo a rimettermi in guardia che seguono altri pugni. Fino a ieri sarei scappato in giro per il ring, invece li prendo uno dopo l’altro, lui mena pesante senza metterci mai cattiveria ma solo precisione e forza e sportività, mi viene da ridere, tutto il freddo lavato via da una scarica di cazzotti. Io sento di volerli prendere, di non voler scappare e riesco a schivare un altro diretto e torno dritto davanti a lui. E arriva, per la prima volta sale come una fiamma, un moto di violenza che riconosco, penso “io ti ammazzo”, penso che vorrei ucciderlo, martoriarlo, davanti non ho più lui però ma ho la mia faccia sorridente, con un paradenti nero e il caschetto nero e sento che sarei capace di ucciderlo a suon di pugni. Svanisce la sensazione di stordimento e gli occhi si velano di umido, gli assesto un jab forte dritto in faccia e un diretto, niente a che vedere con quelli che mi ha dato lui, ma noto nei suoi occhi, tornati ad appartenere al loro proprietario, soddisfazione e stupore, ci tiene che io migliori e sente che dietro a quei pugni qualcosa di denso si sta muovendo.

Per la prima volta ho pilotato del calore dritto in faccia al mio avversario, per la prima volta sono andato fino in fondo e ho sentito qualcosa di solo mio, sotto il ghiaccio c’è qualcosa, lo sapevo. Amy Winehouse in sottofondo è svanita anche se suona ancora nei miei respiri affannati. Non ho più fiato, respiro con il naso e mi scaglio di nuovo contro di lui che para i miei colpi ma arretra, saranno passati due minuti e io non mi reggo in piedi. Forse l’aver tirato fuori una scarica simile mi ha spossato, ma avanzo con gli ultimi sgoccioli di aria nei polmoni, devo allenarmi di più.

Fingo un diretto destro e continuo a guardarlo pensando di potergli aprire la faccia, rivedo un me stesso che prova a pararsi ma muovo l’altra spalla e gli piazzo sulla tempia un gancio sinistro che lo tramortisce per qualche istante, lui risponde più leggero di prima, è stanco e ha capito che quello era il mio ultimo sforzo, io arretro e schivo, respiro a fatica. Su un ring, lo sforzo sommato alla tensione è incredibile e l’energia si esaurisce come se ti stessero spremendo i polmoni come arance.

Giriamo un po’ intorno, piano, respiriamo e prendo qualche altro pugno ben assestato, un jab forte, poi la campanella suona.

Ho fatto il mio, e questo penso sia il suono più bello al mondo dopo la risata di Amelia e il rombo di un caccia F-14 ben visibile lanciato sull’obiettivo.

Sorrido, il mio avversario mi abbraccia e ci tocchiamo i guanti.  Mentre scendo ho la sensazione di svenire, non mi reggo in piedi, così allungo una mano per tenermi alla corda laterale.

Che bello, il pugilato. Che bello questo posto dove posso imparare a non scivolare via su una lastra di ghiaccio. Sento del calore, Amy Winehouse mi distrae, continua a suonarmi dentro ininterrottamente anche se ora la radio passa Lucio Battisti. Ma ora va bene così.

Torno nello spogliatoio, mi levo i guanti e le mani sono rosse, le dita arrossate e appena graffiate. Vorrei ci fosse Luigi ora per raccontarglielo, o forse è giusto che io stia un attimo da solo, seduto a giocare con la lingua e con il paradenti, ridendo senza più conati.

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Andrea Fassi

Pronipote del fondatore del Palazzo del Freddo, Andrea rappresenta la quinta generazione della famiglia Fassi. Si laurea in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali coltivando l’interesse per la scrittura. Prima di seguire la passione di famiglia, gira il mondo ricoprendo diversi ruoli nel settore della ristorazione ed entrando in contatto con culture lontane. Cresciuto con il gelato nel sangue, ama applicare le sue esperienze di viaggiatore alla produzione di gusti rari e sperimentali che propone durante showcooking e corsi al Palazzo del Freddo. Ritorna al passato dando spazio al valore dell’intuito invece dei rigidi schemi matematici in cui spesso oggi è racchiuso il mondo del gelato. Combina la passione per il laboratorio con il controllo di gestione: è l’unico responsabile del Palazzo del Freddo in qualità di Amministratore Delegato e segue la produzione dei locali esteri in franchising dell’azienda. In costante aggiornamento, ha conseguito il Master del Sole 24 Ore in Food and Beverage Management. La passione per la lettura e la scrittura lo porta alla fondazione della Scuola di scrittura Genius nel 2019 insieme a Paolo Restuccia, Lucia Pappalardo, Luigi Annibaldi e ad altri editor e scrittori. Premiato al concorso “Bukowsky” per il racconto “La macchina del giovane Saleri”, riceve il primo premio al concorso “Esquilino” per il racconto “Osso di Seppia” e due menzioni speciali nei rispettivi concorsi “Premio città di Latina” e “Concorso Mario Berrino”. Il suo racconto “Quando smette di piovere”, dedicato alla compagna, viene scelto tra i migliori racconti al concorso “Michelangelo Buonarroti”. Ogni martedì segue la sua rubrica per la scuola Genius in cui propone racconti brevi, pagine scelte sui sensi e aneddoti dietro le materie prime di tutto il mondo. Per la testata “Il cielo Sopra Esquilino” segue la rubrica “Esquisito” e ha collaborato con il sito web “La cucina italiana” scrivendo di gelato. Docente Genius di scrittura sensoriale, organizza con gli altri insegnanti “Il gusto per le storie”, cena evento di degustazione di gelato in cui le portate si ispirano a libri e film.

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