Ci sta che sorpassare in salita sia sempre rischioso. E che se guidi un camper lo sia ancora di più.
Ma io spingo sull’acceleratore, credevo fosse più facile.
È solo che i camper traballano, sono pieni di persone e io non ne ho mai guidato uno prima d’ora. Così mentre il sole tramonta in Ungheria, sto per morire. E porterò con me sette persone.
Sulla corsia opposta, quella dove non dovrei trovarmi (ma devo fare duemila chilometri e quindi ci provo), arriva l’auto che mi ucciderà.
La strada mi è sembrata libera, mi ha distratto lo sconfinato lago Balaton alla mia sinistra, meta di turismo da tutto il mondo. Il lago ora lo vedo con la coda dell’occhio, sono concentrato sull’asfalto e sulla linea bianca che divide le corsie.
La visuale non è perfetta per via del tramonto, il grosso camion che sto provando a superare non può rallentare perché, ormai, ha altre macchine attaccate in coda dietro di sé.
Penso che decidere di imbarcarmi per l’Ucraina sia stata una scelta avventata. L’ultima di molte.
Accanto a me Cecilia, giornalista dell’Ansa, lavora al telefono tranquilla; si fida o è distratta.
Immagino la macchina schiantarsi sul camper. I vetri mi tagliano la pelle, schegge che schizzano negli occhi, collo e schiena si spezzano, al terzo ribaltamento fuori strada sento i corpi molli come pupazzi dei miei compagni rimbalzare dentro al camper. Per poi annegare proprio dentro al Balaton.
Immagino l’uomo nella macchina che mi viene incontro. Magari sta tornando da sua figlia convinto che il grosso camper nella corsia sbagliata riesca a superare il camion. Penso a mia figlia. Cosa le racconterà la mamma? Che per andare ad aiutare persone come noi colpite dalla guerra, suo papà non ha saputo fare un sorpasso? Quanti anni impiegherà a smettere di odiarmi?
Il camper traballa, il camion a destra non rallenta. La macchina davanti è lanciata e non può frenare e io non so cosa fare.
Nove anni fa.
Stringo la mia Montblanc finché l’inchiostro non passa su ogni pagina del contratto. Non me lo merito sia chiaro, ma è la miglior cosa che potesse accadermi. Sorpasso tutti quelli che nella mia famiglia mi hanno ostacolato. Non saprei spiegare in che modo mi abbiano ostacolato, ma lo hanno fatto. Ruoto la penna tra le dita. Il contratto è di diciotto pagine, sto a pagina otto, firmo. E via. Certo che firmo. È il mio nome. L’azienda che mio nonno Giovanni ha creato. Che ora è coreana. Una vendita megagalattica di cui anche il TG5 ha parlato.
Io non lo avrei mai fatto, mi vergogno a parlarne. La storia non si vende. Alzo gli occhi dal contratto. È lo studio legale più grande che si possa immaginare. E io ho solo trent’anni. La penna scivola su pagina nove e via, via un foglio alla volta con cura. I contratti si firmano di lato, non sotto. Ho fatto finta di saperlo, osservando Mr. Kim firmare prima di me. Accanto alla mia c’è la sua firma. Sfoglio le pagine. Impegni, compenso, obiettivi, oggetto, arbitrato.
Un’enorme azienda coreana mi sta dando lavoro, nella mia azienda di famiglia.
– Mr. Kim la ringrazia, Signor Fassi. Per aver accettato, per aver deciso di salire a bordo. Il suo cognome e le sue competenze saranno fonte di grandi successi.
Io espiro, sento le mani fredde.
L’avvocato che parla si piega leggermente in avanti. Annuisco. Guardo Mr. Kim, sorride vicino a due avvocati coreani, un consulente finanziario e una guardia del corpo e i quattro avvocati dello studio legale Gianni Origoni in cui ci troviamo.
La sala è così grande da sembrare quella del Palazzo del Freddo. Ha affreschi sul soffitto e colonne imponenti su tutti i lati. Io sembro minuscolo. Il tavolo è lungo e vuoto, qualche bottiglietta d’acqua e penne e fogli di carta intestata.
Giro la mia penna tra le dita della mano sinistra mentre con la destra stringo la mano a Mr. Kim, la sua è calda e morbida, la mia resta fredda.
– Com’è essere a capo dell’azienda che porta il suo nome?
Sorrido all’avvocato che mi pone la domanda. Forse parla per alleggerire il momento, o forse per ironizzare sulla vendita.
– Beh, è come un sorpasso.
Lui mi guarda, tira indietro il collo.
– Scusi, signor Fassi?
Sorrido. Senza rispondere. Guardo Mr. Kim. Lui è l’Amministratore Delegato dell’azienda che da poche settimane, per accordo con la mia famiglia, è proprietaria delle quote del Palazzo del Freddo, quindi lui è il mio capo.
– Signor Fassi, deve firmare anche questa piccola liberatoria. Si impegna a non accettare altri lavori nel settore della gelateria in contrasto con il suo ruolo di Amministratore Delegato del Palazzo del Freddo.
Accenno un sorriso.
– È una minaccia?
Poi sorrido del tutto. Non è quello che ho sempre desiderato?
L’avvocato ride a bocca aperta. Ha due otturazioni nere che mi disgustano.
– Una prassi, Signor Fassi.
Firmo anche questo foglio con la mia Mont-Blanc. È sempre con me, il regalo più importante della mia vita.
Mr. Kim dice qualcosa in coreano all’interprete che poi traduce in italiano:
– Signor Fassi, signori, Mr. Kim vorrebbe comunicarvi che si congederà. Porterà suo figlio a vedere la gelateria e poi rientreranno in albergo. Questa visita a Roma, come sapete, sarà di soli tre giorni per la famiglia di Mr. Kim.
Io annuisco. Mi ricordo quando da bambino giocavo in gelateria. Ero sempre solo, da figlio unico, credevo di essere il bambino più fortunato del mondo tra i grandi macchinari, ovunque pieno di gelato. Immagino suo figlio girare per la gelateria, ora è sua.
Stringo le mani una a una agli avvocati, resta per ultimo davanti a me Mr. Kim. Mi avvicino e lo abbraccio. La sua guardia del corpo accenna un movimento, gli avvocati coreani mi fissano.
Mr. Kim ha studiato in Europa, so che ha viaggiato in tutto il mondo, so che mi sta studiando e so che non mi sentirò mai un suo sottoposto. Da oggi sono l’Amministratore Delegato del Palazzo del Freddo e non c’è quota societaria che possa togliermi la proprietà intellettuale, familiare, emotiva.
Mr. Kim mi abbraccia a sua volta. Dopo qualche millesimo di esitazione, come mi aspettavo. Non stringe, si limita a una pacca sulla spalla, il suo petto sul mio, il bacino un po’ più distante. Poi si stacca e si congeda.
Esco tiro la giacca e aggiusto il colletto della camicia. Non sono abituato a vestire così elegante. Seguo il lungo corridoio arredato del palazzo dello studio Origoni, l’edificio mi appare come un’antica casa nobiliare. Penso di avercela fatta. Saluto la segretaria all’ingresso che mi sorride, avrà l’età mia. Lascio alle spalle almeno dieci sale riunioni e svariati corridoi. Apro la porta e sono sul pianerottolo.
Sono entrato che non ero nessuno, ora ho il controllo. Esco in strada e c’è un poco di sole tra le nuvole, mi guardo intorno. La salita delle quattro fontane è sempre affollata e piena di smog. Abbasso lo sguardo. Ma cosa mi succede? Dov’è finito tutto il desiderio? Ho varcato la soglia, ho firmato, dovrei saltare di gioia, dovrei godere, dovrei gioire per quello che nessuno della mia famiglia mi avrebbe mai dato. E invece, non sento niente.
Ci provo. Tutto traballa. Tanto vale provare. Scalo dalla quarta alle seconda, non ho alternative. E il camper, un po’ come Mr. Kim mi restituì l’abbraccio tanti anni fa, tentenna ma risponde.
Riesce a prendere velocità, quanto basta per recuperare strada. Vedo la scritta sul camion scorrere, la testa del conducente, poi il muso e lo supero. La macchina è a poche decine di metri, lampeggia come se la paura stessa mi stesse facendo i fari. Pochissimi metri.
Sterzo e sono fuori traiettoria. La macchina sfreccia alla mia sinistra, suona, il camion suona.
Ondeggiamo prima a sinistra, poi a destra.
E poi con dolcezza, il camper si assesta, solido, sulla strada.
Mi rendo conto di non aver mai respirato e quindi sento i polmoni gonfi, la trachea secca e la bocca asciutta.
Vorrei gridare. Ma non esce niente. La paura, l’adrenalina, dove sono? Calma piatta. Ce l’ho fatta.
Cecilia guarda fuori dal finestrino, penso che non abbia avuto dubbi sul fatto che ce l’avrei fatta. Sento di esserle simpatico.
Stringo il grosso volante del camper, guardo di nuovo l’asfalto.
Cecilia mi guarda. Chissà cosa vede quando incrocia il mio sguardo, vorrei abbracciarla. Ma non lo faccio.
L’ultima parte dell’enorme Lago Balaton si riflette nello specchio retrovisore.
Questa notte arriveremo alla frontiera tra Ungheria e Ucraina, mi metto comodo e guardo la strada. Cecilia accanto a me si è addormentata. Tutti gli altri i miei compagni di viaggio non si sono accorti di nulla.