Nei capitoli precedenti:
- Capitolo 1 – Il sorpasso
- Capitolo 2 – Frontiere
- Capitolo 3 – In caso di morte
- Capitolo 4 – Terra di nessuno
- Capitolo 5 – Dentro
- Capitolo 6 – Bestialità
- Capitolo 7 – Droni
- Capitolo 8 – Sirene
- Capitolo 9 – Odessa
- Capitolo 10 – Bilanci
- Capitolo 11 – Mansplaining
Dodicesimo capitolo – Rete di sicurezza
Roma, 2016
Mio nonno Leonida, che tutti chiamano Leo, si gira il sigaro tra le dita e indica il Palazzo del Freddo.
– Vedi, Andrea, mio padre acquistò l’edificio nel 1927. Lo stabile era una stalla e, all’occorrenza, diventava rimessa per carrozze. Li vedi i grandi archi all’interno?
C’era anche un piccolo magazzino subito sopra, poi il nulla fino al cielo.
– I clienti faranno la fila, – mi diceva, – e sulle entrate non ci deve battere il sole, mai!
Mi guarda con gli occhi piccoli, come se si fossero ristretti per centrare il ricordo nel passato.
– Mesi prima di comprare il palazzo, papà se ne stava in piedi a via Principe Eugenio e mi portava con lui. Se ne stava in piedi per ore a studiare la strada, a osservare il passaggio e la luce sul marciapiede; immaginava di piazzare due grandi statue sul tetto con le mani davanti al viso per contrastare (metaforicamente ) il sole.
Alzo gli occhi. Le due statue incartate in una rete di sicurezza verde se ne stanno immobili con le mani verso il cielo, impagliate come trofei senza più importanza.
La rete serve per evitare che cadano a pezzi. Per un motivo o per un altro, a nessuno è mai più interessato prendersene cura.
Mio nonno Leo continua:
– Il Palazzo del Freddo, diceva mio padre Giovanni, sarà unico per un altro secolo almeno. Arriverà l’industria, arriverà il desiderio di avvicinare il gelato alla cucina, ma nessuno avrà il coraggio che ho avuto io. Perché il gelato è una piccola porta che ci fa tornare bambini, che ci ricorda che la vita è anche dolce, è un abbraccio di mamma e nonna la domenica. Il Palazzo del Freddo è una macchina del tempo.
Sospiro, avrei voluto conoscerlo il mio bisnonno.
– Leo, ricordati, questa tradizione nostra, che io, tua madre Giuseppina e tua nonna Giuseppina abbiamo iniziato non dovrà mai cambiare, Leo, mai: gelato di lusso a buon mercato.
Mio nonno si tocca il sigaro in bocca. Io guardo di nuovo le statue, penso che i ricordi siano importanti ma credo che per dargli valore, si debba agire nel presente per difenderli.
– Certo, le statue stanno messe malino, oggi. – Gli dico, guardandolo.
– Stanno bene. Che hanno?
– No, dico, potremmo restaurarle invece di tenerle così.
– Ci penserete voi, quando sarà.
Il sole già batte sul palazzo dalla parte opposta della strada, all’ombra dell’ingresso della gelateria mio nonno mi guarda con qualcosa che mi sembra rabbia ma non so definirlo e potrei sbagliarmi.
– Che cazzo ne sai tu.
Comunque lui si gira e, senza salutarmi, se ne va.
Dire la verità è complesso. La verità qui è un elastico molle da sfilacciare perché, se teso, colpisce e fa tremare tutto. Io lo sapevo prima di arrivare qui.
Lo guardo andarsene, poi entro, la gelateria aprirà in meno di un’ora.
Fa freddo. Sento freddo. Come posso gestire tutto questo, da solo? Colerò a picco con tutto il Palazzo del Freddo. Colerò lentamente, scioglierò il Palazzo del Freddo al calore di un desiderio ereditato che ancora non comprendo.
Il mio bisnonno, penso, o viaggiava nel tempo o aveva la lungimiranza di un illuminato.
In laboratorio, sul muro, su, in alto a guardia della produzione ci sono due busti. Quello del mio bisnonno Giovanni ce lo ha messo mio nonno Leo nel ’78. Sopra il busto di lui c’è il busto di Giuseppina, la mia trisavola. Colonna portante di tutto. Lei lì ce la mise il mio bisnonno Giovanni, infatti il busto è di bronzo, non di gesso come quello di nonno Nino.
Li guardo. Guardano il laboratorio con gli occhi scolpiti, lui bianco candido, lei in ottone levigato, luminoso.
Sento che nella devastazione dei pezzetti che mi compongono, c’è il loro riflesso.
Infilo la giacca da gelatiere. Mi sta bene ma mi vergogno a indossarla guardando il suo busto.
Dietro di me sento dei passi. Oggi i gelatieri sono andati via prima, ho bisogno del laboratorio, devo rivedere tutte le ricette, capire, studiare e inventare qualcosa per l’onda d’urto che arriverà per via della notizia dei coreani.
– Andrea.
La voce di mio nonno mi distrae. Mi indica con due dita.
– Perché pensi che sei il capo qui?
Grazie al fatto che per mesi ho scritto all’ Amministratore Delegato dell’Haitai per capire se si potesse evitare di mandare a puttane tutto quello che nonno Nino ha creato, tutto, co du firme. Lo penso così intensamente che secondo me mio nonno lo sente.
– Non lo so, il caso?– Dico.
Lui sbuffa, togliendo il sigaro dalla bocca.
– Perché l’ho voluto io. Perché se non era per me tu stavi ancora a fare i gelatini con l’amico tuo.
I gelatini con l’amico mio. Verdepistacchio è stata un’esperienza grandiosa, penso. Invece se non era per nonno Nino tu ’ndo stavi?
Digrigno i denti. Lo penso ma non lo dico.
– Devo ringraziarti? Per culo mi chiamo Fassi, per questo sto qua, solo per questo.
Poi tra me e me aggiungo: Sto qua per una susseguirsi di tragedie, caso, di certo non per merito.
– No. Tu stai qua perché sei l’unico che ho proposto, e ho rinunciato al ruolo di Presidente onorario per non ostacolarti.
E con questo gesto pensi che mi hai fatto un favore? Pensi che cancelli l’odio? Mi mordo le labbra.
– Bene, ti ringrazio. L’importante è che siate contenti voi, tu, tutti.
Lo guardo negli occhi,
– Senza questo cognome non varresti un cazzo, ricordatelo.
Sorrido, in effetti lo penso anche io. Povero me che non posso essere un cazzo. Però, c’è un però, io non ho reti di sicurezza, se sbaglio qua non c’ho nient’altro, non posseggo nulla.
Almeno così pensavo.
Mio nonno si allontana. Io guardo i due busti, vigili. Penso alla giornalista che mi ha intervistato qualche giorno fa. Questa sera la vedrò a cena.
Ucraina, 2023
Youth of Ukraine è la rete di sicurezza che garantisce alle famiglie di Mykolayiv cibo e acqua quando serve, provvede ai rifornimenti di beni primari e dà assistenza ai cittadini.
Arriviamo al loro quartier generale in serata, poco prima di cena, il sole ancora spara raggi di luce tra le strade. È un enorme palazzo, all’ombra di altre decine di palazzi grigi pieni di piccole finestre opache che sembrano occhi con la cataratta.
Ha un’entrata da cui poter scaricare i beni che abbiamo portato.
Ci accolgono ragazzi e adulti, tutti incredibilmente festosi, felici. Felici di noi lì.
Io sorrido. Resto in disparte, come se avessi amputato il pezzo di me che dovrebbe permettermi di saper stare in una comunità, di sentirmi parte di qualcosa. Siamo arrivati qui, okay, vorrei solo scaricare ’sta roba e andare avanti. Ma avremo qualche ora qui.
Silenzioso, osservo la catena umana di decine di persone che si crea per passare di mano in mano i cartoni con dentro cibo, pannolini e tutto il resto. È enorme il quantitativo portato dall’Italia. Oltre noi dodici, il grande gruppo di cui io e la mia compagnia facciamo parte vanta un centinaio di persone.
Mi guardo intorno, la strada dissestata ha qualche cane che gira tra il marciapiedi e l’interno del palazzo dove stiamo scaricando.
Mi incollo un grosso scatolone, entro da solo. Seguo la fila di persone che mi guardano e sorridono.
– È fragile, – dico senza che nessuno mi chieda niente. Forse neanche mi capiscono.
La schiera di esseri umani continua dentro all’edificio, su per quattro giri di scale. Io salgo, arrivo fin su, li guardo una a una, le persone sorridono, gli occhi vigili, attenti, pronti a ricevere la notizia di un nuovo missile in città.
C’è un fuoco sacro nei loro occhi, arde nelle pupille di donne abusate e di uomini umiliati, magari proprio tra questi qui che mi guardano. Anche se la propaganda buffa che si insinua in Europa li definisce nazisti, estremisti, io li definirei vessati e spossati, sono un popolo con le loro vette e i loro abissi frastagliati. Ma questa gente, questa qui, la guerra la subisce e basta.
La piccola Russia, infatti, vive l’umiliazione della grande madre come un bimbo mai lasciato crescere libero e ogni bambino tenuto in cattività è arrabbiato. Difenderà sé stesso da ogni singulto esterno, annaspando in un mare di lacrime, perché questo tenta l’Ucraina, emergere da chi l’ha tenuta prigioniera.
Lascio lo scatolone all’ultimo piano. Una ragazza mi sorride e mi dice dove adagiarlo. Insieme ad altre decine e decine di scatole. La stanza è grande, dà su una specie di mensa e su un’area dove c’è un piccolo palco di un teatro. Mi ricorda lo Spin Lab all’Esquilino, il palazzo occupato da anni dietro la gelateria.
Dato che giù gli altri non sanno dove io sia finito, lascio la sala e scendo saltando due gradini alla volta per andare a prendere un altro scatolone.
Un signorotto basso, italiano con l’aria gioviale e il viso rotondo con pochi capelli sulla testa, la barba fatta e gli occhi vispi, vivi, mi blocca e mi sorride.
– Sei arrivato ora, immagino?
– Sì, arriviamo da Odessa, l’ultima tappa, viaggetto lungo dall’Italia.
Dietro di lui un uomo magro oscilla, il volto sembra una quercia secolare e gli occhi blu mare.
– Puoi chiamarmi Giacio, sono Giacio, piacere di conoscerti. Lui invece è Erri, sicuro lo conosci.
Io sorrido a entrambi.
– Mi chiamo Andrea. Piacere.
Guardo Erri e lo riconosco, mi sembrava lui, Erri De Luca, lo scrittore.
– Diciassettesimo viaggio qui per noi. – Dice Giacio che sprizza l’energia di un bambino. – Tadan! Partiamo all’alba e ci fermiamo per pisciare. In due giorni stiamo di nuovo in Italia. Poi si riparte, giusto il tempo dei rifornimenti.
Sento odore di cipolla che sale dalle scale, misto a carne.
– Fuori dai nostri confini c’è il mondo. Il mondo va ascoltato e qui c’è bisogno di aiuto e noi stiamo qui in prima fila, avanti e indietro.
Resto in silenzio.
– Diciamo che proviamo a essere qualcosa di più oltre i confini delle nostre vite in Italia.– Aggiunge Erri De Luca.
Respiro, chissà perché lo sta dicendo, chissà perché rimbomba così dentro di me.
– Forti pure voi a essere qui, ora su, al lavoro che poi c’ho fame e questa sera ci fanno una cena di livello altissimo.
I due si allontanano chinando la testa. Intorno a me i ragazzi e le ragazze di Youth of Ukraine si adoperano per passare ancora decine di pacchi. Io non ci riesco. Non riesco a sentirmi parte di nulla, resto sempre al confine. Una sola volta sono andato giù e ancora ne pago le conseguenze.
Alzo gli occhi, una donna anziana con gli occhi scuri, i capelli neri e la pelle pallida e rugosa mi fissa, ha il fiato che le odora di fragole, ce l’ho vicinissima, non l’avevo vista arrivare. La fisso, mi sembra di riconoscerla e io riconosco lei.
– Andrea, vieni che dobbiamo scaricare un mega scatolone.
È Mariangela che da sotto mi chiama.
– Andrea?!
Mi giro, guardo dalle scale giù.
– Arrivo!
Alzo gli occhi, l’anziana non c’è più. Mi guardo intorno ma niente. Allora scendo veloce. Fuori il sole sta scomparendo e non batte più sui sorrisi delle persone che ci accolgono.
– Eccomi.
Seguo Mariangela.
– Dobbiamo scaricare lo scatolone grosso e l’acqua, poi ci ospiteranno a cena e non più tardi delle 23 dobbiamo essere al rifugio dove dormiremo, sbrighiamoci.
Annuisco. Qui non ci sono alberghi né ostelli, guardo i capelli biondi di Mariangela che oscillano, in quel momento appaiono Giaco ed Erri De Luca.
– Venite, c’è un problema alla pompa dell’acqua potabile.