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Capitolo 2: Frontiere
Marzo 2023, tre settimane alla partenza.
Il laboratorio è vuoto. Mi guardo intorno. Guarnisco la cioccolata alla vodka e ritocco la crema ucraina con delle ciliegie. Le luci al neon rimbalzano sul tavolo d’acciaio.
Un dito mi si sporca di cioccolata. Lo succhio, trovo note tostate di una cioccolata aromatica e poco astringente, sento i frutti di bosco e persiste la vodka. Questo gusto è dedicato alla Russia per l’occasione. L’idea di non orientare solo sull’Ucraina la degustazione per la raccolta fondi per il dissalatore è stata un flop.
Sono previste poche persone rispetto alle mie classiche degustazioni, inoltre è atteso anche un contestatore italo-ucraino.
Alzo gli occhi dal tavolo, entrano due persone.
Uno è Ludovico. Magro, gli occhi spalancati di chi guarda con attenzione. È un giovane giornalista che, a pelle, mi è subito simpatico. Cosa rara, dato che, normalmente, maschero l’insofferenza verso gli esseri umani, maschi, con formale disponibilità.
L’altra è Cecilia, la giornalista che è qui per intervistarmi per conto dell’Ansa. Sono gli unici giornalisti che verranno insieme a noi in viaggio.
Inizio a realizzare che sto per partire per Mykolaiv, a pochi chilometri dal fronte di guerra. Sono entrato in un meccanismo nuovo, gli aiuti umanitari.
Ludovico mi racconta che dovrà scrivere per L’Espresso quello che vedrà. Cecilia dovrà fare un reportage video per Ansa, armeggia con la sua borsa per prepararsi all’intervista. Noto la cura che hanno nell’utilizzare le parole, più di quella che ho io. Sentendoli parlare, osservando le loro motivazioni, decido di scrivere un diario di viaggio.
Entrano poche altre persone, alcuni di loro li ho conosciuti tramite Zoom per i preparativi della partenza. Non so, tra loro, chi verrà con me e chi è qui per sostenere la causa. Con alcuni di loro viaggerò di certo, per giorni, a stretto contatto. Del ragazzo italo-ucraino non c’è traccia. Infuriato, reputa uno ‘schifo’ usare le parole Russia e Pace insieme. Non è stato l’unico, molti hanno espresso il loro dissenso sulla scelta. Ma lui voleva esserci oggi per dirmelo in faccia.
Racconto questo episodio a Cecilia, poi parliamo della gelateria per conoscerci, per rompere il ghiaccio. Poi tira fuori telecamera e microfono dallo zaino. Mi chiedo se legherò con lei. Maneggia la camera con cura, attacca il microfono, quello peloso che mi fa sempre ridere quando lo vedo e collega alcuni cavi:
– Sei pronto?
– Sì, – Rispondo.
– Andrea, da Amministratore Delegato del Palazzo del Freddo a volontario in partenza verso Mykolaiv, a pochi chilometri dal fronte di guerra. Perché andare in Ucraina di persona? Non basta “esserci” con raccolte fondi e impegno da qui?
‘Spero, andando in guerra, di capire cosa mi stia succedendo. Cosa succede a me, dentro di me dico. Insomma, hai capito.’
Lo penso. Ma non glielo dico. Tossisco e dico quello che è giusto dire:
– La mia idea di responsabilità sociale passa anche attraverso l’azione concreta. Spesso non è sufficiente sostenere il costo del dolore da lontano. Il mio obiettivo è quello di andare a vedere con i miei occhi e fare concretamente qualcosa di utile. Assisteremo a una cerimonia di ringraziamento per il grande generatore di corrente che abbiamo acquistato per l’ospedale pediatrico di Odessa. Inoltre, porteremo altri generatori più piccoli e un dissalatore. Insomma, restituiamo acqua potabile e corrente.
Con il Palazzo del Freddo ho contribuito all’acquisto di questi beni.
Cosa non da meno, porteremo aiuti di prima necessità e, cosa meno d’impatto ma utile al gruppo, guiderò uno dei camper della Carovana.
Tante piccole azioni insieme penso possano fare la pace.
Non ho mentito, ma non mi sono concentrato per impostare la voce, quindi ripeto due volte l’intervista. Finalmente Cecilia abbassa la telecamera e stacca il microfono.
Guardo l’entrata, nessuno.
– In pochi nella tua posizione lo farebbero, lo sai?
Alzo le spalle.
Una ragazza entrata prima che Cecilia iniziasse l’intervista mi saluta. Parla italiano ma con accento russo, forse l’unica o una delle poche presenti per la degustazione oltre gli amici della rete di ArciSolidarietà e Stopthewarnow con cui parto. Mi mette una mano sulla spalla.
Si presenta, io mi presento a mia volta.
Lascio una mano sul fianco della ragazza e rispondo a Cecilia:
– Sì, è una cosa grande. – E sorrido.
– È bellissimo il fatto che tu vada lì. Il popolo ucraino ha bisogno di questo. Immagina il contrario. Immagina che tutti si voltino dall’altra parte, tu invece decidi di guardare.
La ragazza mi stringe la mano di nuovo in segno di gratitudine. Allora la guardo, ha gli occhi blu così chiari da sembrare bianchi. Parla un ottimo italiano, scivola dura su alcune vocali. Mentre assaggia i due gusti di gelato che le offro, si pulisce la bocca con un fazzoletto e sorride. Mi spiega di avere madre russa e padre ucraino.
– Guardare, dici?
– Sì, guardare. Riconoscere. Aiutare, aiutarsi.
‘Aiutarmi’, penso.
– Ti piacciono i due gusti? – Le chiedo.
– Molto. E trovo che l’idea di parlare di pace e proporre anche un gusto russo sia geniale.
Il laboratorio brulica delle poche persone presenti, tutti chiacchierano in attesa che io dica qualcosa.
È fastidioso il flop, il laboratorio resta semi vuoto. Mi nascondo dietro al fatto sia un evento di beneficenza, quindi genera poco interesse. Mi nascondo dietro alla scelta di metterci il gusto russo. Mi nascondo.
Sorrido e ringrazio la ragazza. Torno da Ludovico e Cecilia. Il contestatore non s’è visto. Tutti e due puliscono la coppetta con il cucchiaino, annuiscono e si leccano le labbra. Vorrei prendere il microfono e raccontare a entrambi tutti i motivi per cui parto, mi ispirano fiducia. Ma non c’è tempo.
Mi chiamano per raccontare della partenza e della raccolta fondi. Nascondo una parte di me, preparo la voce e respiro. Non mento su quanti pochi soldi sia riuscito a raccogliere. Ce li metterò io, perché il desiderio di voler aiutare sì, quello è reale.
Oggi
Ludovico è pallido, spaventato. Non trema ma ha gli occhi vitrei. Arriviamo alle tre di notte alla frontiera ungherese. Un edificio grigio seminato di segnali di Alt ci appare dopo chilometri di bosco.
Un cinghiale si è schiantato sull’auto che guida.
Sul camper i miei compagni di viaggio mi spiegano che i poliziotti di frontiera qui usano mezzi fascisti.
Polizia che non vede di buon occhio chi valica il confine verso l’Ucraina in guerra, poliziotti annoiati e poco motivati pronti anche con gli europei ad adottare un metodo al limite dell’abuso di potere.
Le attese in frontiera possono durare ore. Io mi guardo intorno, vorrei parlare con Ludovico. È notte fonda, quindi non c’è fila. Sul camper siamo in sette. Ci sono io alla guida. Poi la macchina con Ludovico, Anna e Raffaella e un piccolo Van con Amedeo, Efrem e Giulio.
L’impatto con il cinghiale è sul muso, laterale. Ludovico non avrebbe potuto far nulla per evitarlo. Il cinghiale è saltato fuori dal buio del bosco e dopo l’urto è scappato.
Mariangela, il capo della spedizione, avrebbe preferito lasciassimo la macchina in un parcheggio prossimo alla frontiera per evitare problemi. Dopo una consultazione sul gruppo whatsapp, però, ha ceduto. E ora siamo qui con tutti e tre i veicoli. Glielo vedo negli occhi che già sa come andrà.
Aspettiamo un’ora, pur senza nessun altro in fila, fermi tra questi edifici anneriti dal tempo.
Non viene nessuno a controllarci. Intuisco sia un modo per esplicitare il fatto che siamo una noia per loro. La stazione è silenziosa. Illuminata da luci bianche.
Le attese mi snervano, così scendo dal camper, giro tra i gabbiotti, guardo dentro le finestre e alla fine citofono a un piccolo ufficio sulla sinistra del percorso per le auto. Niente. Mariangela mi segue, spazientita. La frontiera sembra abbandonata. I grossi pini intorno la fanno apparire come il set di un film horror. Le luci artificiali riflettono le ombre degli alberi scosse dal vento, le casupole della polizia hanno luci di sicurezza calde che, a guardare dentro, illuminano scrivanie vuote.
Poi, dal buio, forse da qualche ufficio che dalla nostra posizione non vediamo, arrivano due poliziotti. Gridano in ungherese e ci intimano di risalire nel camper e sugli altri due mezzi. Perché intanto erano scesi anche gli altri per capire cosa fare.
Prima del camper, il controllo è per la macchina. Ludovico, Raffaella e Anna consegnano i documenti. Noi siamo dietro di loro, sul camper. In silenzio. Siamo tutti orientati verso l’auto per capire cosa accadrà una volta che i poliziotti noteranno l’ammaccatura.
Uno dei due poliziotti guarda la macchina, si avvicina al lato rotto, dal camper non vediamo cosa fa. Poi si allontana, entra in un gabbiotto. Vedo che armeggia con un telefono nero. Un minuto dopo arrivano una poliziotta e un altro poliziotto.
Io guardo Mariangela. Ha lo sguardo fisso sulla macchina, teso. Ha la responsabilità di tutti noi, per quanto adulti e liberi di essere dove siamo, la sento vibrare sotto la sua pelle.
Il piglio del leader è qualcosa di fisico, che puoi far percepire agli altri o meno. Lei ce l’ha e si sente.
La poliziotta sopraggiunta deve essere di grado superiore agli altri. Parla con Ludovico alla guida, lui muove le mani, ci sembra spieghi la situazione. Ludovico sa parlare molto bene, è un giovane giornalista che fa delle parole un feticcio, ma questi poliziotti non parlano italiano. Andrà bene penso, spero. I poliziotti indicano l’ammaccatura, si parlano. Poi la donna si avvicina a Ludovico, gli dice qualcosa e gli intima di scendere dall’auto. Non sentiamo cosa gli dicono neanche una volta fuori, vediamo solo che in due lo prendono per le braccia e lo portano via.
Guardo Mariangela:
– Cazzo.