Nei capitoli precedenti:
Capitolo 3: In caso di morte
Due giorni prima della partenza
Ho stampato la delega da firmare in caso di morte. Se muoio, devo delegare chi si occuperà delle mie cose.
L’Ucraina oggi è uno dei dieci paesi più pericolosi al mondo, dove è sconsigliato andare. Se muoio, la mia Montblanc e poco altro decido di lasciarlo a Domitilla, mi fido ciecamente di lei. Il punto è che lei non sa che sto firmando un documento simile e sa che non ho tutte le rotelle a posto. Dovrei dirglielo. Ma non riesco.
Le tre righe sono chiare. In caso di morte, la responsabilità è mia e le cose sono sue.
Amelia entra nella stanza, la guardo. Mi tira via la Montblanc, io gliela tolgo con uno scatto. Accenna un pianto. La guardo di nuovo. Le ho sempre parlato come fosse ‘grande’. Le vocine che fanno ai bambini mi urtano. Fanno sembrare gli adulti deficienti e da piccolo pensavo lo fossero davvero. Amelia la tratto alla pari, le parlo come parlerei con un adulto.
– Amelia. Non volevo strappartela, scusa. Dici che papà è rimbambito eh?
Arriccia il naso.
– Sì, sei un rimbambitone. Bellissimo e anche un po’ triste.
Tiro indietro la testa. Non so cosa rispondere. Il concetto di tristezza per me si riassume sulla mia firma sbilenca sul pezzo di carta che ho tra le mani. Firma storta, irregolare, sembra quella di un bambino.
– Papà, io e te siamo due pazzi veri. Vieni a giocare?
Piego il foglio firmato e mi alzo in piedi.
– Ora non posso Amelia, devo preparare lo zaino.
– Dove vai? In abbeggo?
Alcune parole ancora non le sa dire bene, ma ama gli alberghi.
No, te lo abbiamo spiegato io e mamma. Vado ad aiutare delle persone. È pazzo papà, lo sai. Queste persone si trovano in Ucraina, lontano da qui. Ma ti prometto che torno presto.
– Torni da me?
Mi chiedo se le stia mentendo. Non vado in guerra, vado tecnicamente dove è pericoloso andare. Penso che se non dovessi tornare, tornerei da morto. Nel senso, se qualcosa dovesse andare storto, penso che il legame che sto costruendo con lei mi permetterebbe, fisicamente, di tornare indietro dall’aldilà.
– Certo che torno. È un posto pericoloso ma papà va con persone preparate a fare una cosa bella.
– Giochiamo?
– Ho da fare un poco, Amelia, te l’ho detto. Prendi i colori e disegna.
– Papà, mi avevi promesso però.
Si gira e mi dà le spalle. Ha i ricci morbidi e dorati.
Guardo il foglio sulla scrivania. Provo tenerezza per come firmo, sembra che a firmare sia il mio io bambino. Spaventato e intrappolato. Il nome Andrea scritto verso il basso, il cognome Fassi appiccicato che le due ‘s’ che sembrano una.
Mi ricordo della firma del contratto con la multinazionale coreana, quando sono diventato Amministratore Delegato del Palazzo del Freddo. Schivavo ogni sensazione, quel bambino neanche lo vedevo. Ora, qualcosa affiora. Poi sparisce. Un buon motivo per andare laggiù a Mykolaiv.
Amelia è ancora di spalle. Ero diverso da bambino rispetto a lei, emotività a parte. Taciturno, riflessivo ed emotivo. Lei è molto emotiva e anche io lo ero, credo sia il tratto che ci accomuna di più.
Vorrei restasse così. Vorrei sentisse tutto e imparasse a distinguere le emozioni, anche il dolore. Faccio un passo indietro, mi allontano. Temo possa cogliere il vuoto e diventare come me. Poi però le parlo.
– Senti. – Dico. Lei resta di spalle. – So che non vuoi che parta. Ma a me serve. Mi serve per capire cosa mi stia succedendo. Ecco, forse è un’avventura un po’ esagerata, ma so che lo capisci e io capisco che sarei arrabbiato e triste al posto tuo se tu partissi.
Si gira.
– Allora, papà, ti posso dire una cosa?
– Sì, Amelia.
– Tu finisci di fare quello, – indica lo zaino, – e poi vieni a giocare con me come i pazzi veri.
Oggi, frontiera ungherese.
– Cazzo. Lo portano via.
Mariangela è attaccata al telefono. Ludovico è sparito con i poliziotti.
Siamo ancora in territorio ungherese, quindi europeo.
Insieme a me sul camper c’è anche Silvia. Presidente di AOI, Associazione delle Ong Italiane, che ha come finalità la rappresentanza e la valorizzazione di tutte le associazioni che operano nella cooperazione internazionale. Associazione di stampo europeista, l’altro scopo di AOI è quello di tutelare e rafforzare comportamenti e stili di vita responsabili in tutti i Paesi in cui si trovano a intervenire.
Ha esperienza nei luoghi più caldi del mondo. È agitata, gesticola e parla di contattare diplomatici e sottosegretari. Avrò modo di constatare che è carattere, in realtà ha tutto sotto controllo.
Davanti a noi, la macchina è ferma con dentro Anna e Raffaella. Penso a Ludovico con i poliziotti. Stringo il volante.
– Sta dentro con la polizia che gli sta facendo domande in inglese, nel gabbiotto, dalla parte opposta.
Mariangela legge il messaggio su whatsapp. Fuori c’è vento. Se gli menano? Non so come funziona in questi casi. Nel dubbio non parlo. Vorrei scendere dal camper. Mi guardo intorno. Fuori è buio e ci siamo solo noi.
Dal retro degli edifici della dogana spunta la poliziotta, insieme a un poliziotto e Ludovico. Scatto sul sedile.
Lo fanno rientrare in macchina. Inizia a piovere. Il viso di Mariangela resta teso, legge i messaggi.
Sembra, dai messaggi di Anna e Raffaella, che i poliziotti vogliano tornare sul luogo dell’impatto. Hanno trovato del sangue sulla macchina, credono sia di un uomo.
Così, Ludovico mette in moto. Fa inversione nella piccola strada tra i gabbiotti e sparisce per la via nel bosco seguito dalla polizia.
La pioggia aumenta, il ticchettio dell’acqua è scandito dai grandi tergicristalli. Altri due poliziotti rientrano nei gabbiotti per ripararsi dall’acqua.
Io accendo il camper.
– Aspetta, Andrea, capiamo un attimo. Siamo in frontiera, non possiamo stamparci dentro la macchina della polizia. Fammi capire se qualcuno dall’Italia mi risponde. O l’ambasciata a Budapest. Abbiamo un numero?
Tocco la chiave del camper, ma senza spegnere il motore.
A Silvia scivola il telefono. Accanto a lei, Diletta lo raccoglie e glielo rimette in tasca.
– Ricordiamoci, – dice Diletta, – che sono poliziotti ungheresi. Restiamo qualche istante in silenzio. La macchina della polizia si allontana seguita da Ludovico.
– Non so, non possiamo lasciarlo solo però. – Aggiunge Diletta. – Che dici, Mariangela?
– Ragazzi, un attimo. Un attimo. Sono in linea con l’ambasciata. Un attimo. – Silvia muove la mano in aria.
– Certo che non lo lasciamo solo, seguiamolo, vai. – Mariangela mi guarda negli occhi. Ha un fuoco dentro le pupille, mi fido di lei fin da quando ci siamo conosciuti. Non sono bravo a eseguire ordini, ma lei l’ascolto. Penso si tratti di stima.
Sta di fatto, il motore non l’avevo spento.
– No no no, un attimo un attimo. Ora rispondono e gli facciamo bloccare questa schifezza.
– Sono le tre di notte, Silvia, non rispondo. Andiamo.
Silvia mette il viva voce, il telefono suona libero. Mariangela mi fa cenno di sì con la testa.
Vado in retromarcia. I due poliziotti rimasti sotto al gabbiotto mi guardano, fanno per alzarsi. Io guardo altrove, la pioggia batte più forte. Con la coda dell’occhio li vedo restare seduti sbuffando per l’acqua. Non mi fermeranno. Lento manovro il grosso camper e lo posiziono in direzione contraria, pronto per seguire Ludovico.
Con i fari bassi, resto a distanza per non dare nell’occhio. Sono elettrizzato, adrenalina credo. Vado piano. La strada, sferzata dalla pioggia, è ancora più buia. Vedo in lontananza i fari della polizia e resto a velocità costante.
– Li stanno facendo accostare, hanno capito grazie a Google translator che vogliono caricare Ludovico sulla loro macchina e portarlo in giro in cerca di prove.
Non amo l’autorità. Non la amo perché l’animo umano, nei suoi luoghi insondabili, vestito di una carica come quella del poliziotto, può far sbocciare il seme della rabbia. Inoltre siamo in Ungheria, nel nulla, praticamente nelle loro mani.
Vedo le luci in lontananza lampeggiare, mi avvicino.
– Rallenta. – Dice Mariangela, – Resta a distanza.
– Sono in mezzo alla strada, direi di superarli e accostare appena possibile.
Mariangela mi guarda e annuisce. La strada ha subito il bosco ai lati e il camper, così, ingombra tutta la corsia. Così procedo, il motore borbotta e dopo pochi minuti li raggiungo, li supero e accosto.
Il camper è in folle, su una piccola piazzola sterrata. L’interno è silenzioso.
La macchina invece si è fermata sul ciglio di una strada perpendicolare alla nostra, Ludovico è stato fatto salire sulla volante. In cerca del cinghiale.
Cinque minuti. Poi dieci. In silenzio. Sono tutti al telefono a cercare di svegliare chi può aiutarci. Ma sono le tre di notte.
Mariangela cammina avanti e indietro dentro al camper. Tutti si danno da fare. Io sono puntato sulla strada.
Poco dopo il suo telefono si illumina. È Ludovico che è riuscito a inviare un messaggio. Hanno trovato il pezzo del paraurti e non ci sono tracce, in tutta la strada, di persone ferite. E neanche del cinghiale. Dice che lo riportano in frontiera e gli faranno un foglio di denuncia per la seconda frontiera, quella ucraina, in caso volessimo far passare la macchina.
Tutto qui, penso. E tiro un sospiro insieme agli altri.
Mi chiedo se ci faranno storie tornati alla frontiera, se lasciamo la macchina, saremmo in nove qua sopra e il camper è omologato per sette.
Così, di nuovo in strada, la pioggia si è calmata e continua a scendere.
– Probabilmente volevano sincerarsi davvero fosse un cinghiale. – Propone Cecilia.
– O forse volevano rompere il cazzo. – Aggiunge Mariangela e continua, – Ora sentite me. Lasciamo la macchina, vediamo poi come riportarla in Italia alla fine del viaggio. E dividiamo i passeggeri tra qui e il van.
Nessuno obietta, così lasciamo la macchina in un parcheggio custodito, sotto la pioggia e torniamo alla frontiera.
Sale sul camper con noi anche Ludovico, insieme ad Anna, una signora che ancora non ho avuto modo di conoscere bene. Parla con forte accento napoletano, i capelli biondi sparati come un pulcino e il sorriso sempre pronto. Lei fa parte del forum del terzo settore. Attiva anche lei. Li guardo, sembrano stanchi e scossi. Ridiamo e ci abbracciamo.
– Passiamo la frontiera e ci raccontate tutto. – Dice ora Mariangela con aria accomodante ma severa. – La frontiera ungherese ve l’ho già detto, è pessima. Quindi state concentrati e buoni.
Così siamo un passeggero in più rispetto al numero per cui è omologato il camper. E sto guidando io, responsabilità mia.
Alla frontiera, ora, i poliziotti sono tutti pronti in attesa. Tocca subito a noi.
Io ho sempre avuto un problema con il controllo bagagli. È una tortura per me fin da bambino. Una questione di inadeguatezza. Lo collego al non sentirmi accettato. È sempre stato così in passato. Ma non qui. Quattro poliziotti ci intimano di scendere, mi fanno posizionare il camper sopra una grossa grata dalle maglie larghe per controllare se sotto abbiamo qualcosa di sospetto.
Entrano nel camper. Toccano tutti gli scatoloni, aprono le dispense, smuovono i cuscini. Noi siamo in fila, con gli zaini davanti ai piedi. Un poliziotto si avvicina, mi guarda, guarda il taglio dei capelli e da un calcio al mio zaino. Mi dice qualcosa in ungherese, lo guardo negli occhi. Dà un altro calcio allo zaino.
– Devi svuotarlo, Andre.
Guardo Diletta, annuisco, poi prendo lo zaino e lo rovescio a terra. Il poliziotto si china, tocca le mie magliette, apre la sacchetta con spazzolino e dentifricio, rovista dentro la sacca Genius con libro Ipad taccuino.
Muovo una gamba indietro. Penso di tirargli un destro. Un diretto in faccia. In modo da spaccargli il naso ed entrargli dentro al cervello. Evito. Somiglia pure a uno che mi sta sul cazzo. Però lo fisso negli occhi quando si alza. In divisa, avrà pochi anni meno di me, i capelli corti castani, un po’ di pancia e lo sguardo incazzoso. Mi fissa a sua volta. Mi parla in ungherese.
– Parla italiano. O inglese. – Mimo il movimento della bocca con le mani.
Mi chiede se ho altri bagagli, in inglese. Continuiamo a guardarci, faccio cenno di no. Lui con un manganello muove lo zaino in segno di ‘ok, puoi ricomporlo’.
Espiro. Peccato non averlo colpito.
Fanno lo stesso con gli altri e con le altre. Mentre altri due poliziotti sono nel camper e rovistano ovunque mettendo in disordine.
Si sono goduti la serata, annoiati dal nulla cosmico di questa frontiera e non capendo neanche lontanamente il concetto di ‘aiuti umanitari’ hanno pensato di farci ingoiare un po’ di bile.
Quando camper e bagagli sono ok, manca solo il controllo documenti. Risaliamo sul camper. E si avvicina questo poliziotto tutto dritto sulla schiena. Finora in disparte. Grosso, anziano. Mi guarda e mi chiede in inglese il libretto.
Deglutisco. Guardo Mariangela. Lo cerca e me lo passa. Il camper è omologato per sette. Noi ora siamo in nove. E lui lo sa, sa che li abbiamo caricati per via della macchina guasta.
Sfoglia il libretto e indica il sette, bello chiaro, poi con un velo di ironia sulle labbra, ci conta.
Nove.
Io non lascio a piedi nessuno. E questi, penso, mi hanno rotto il cazzo. Mariangela è ignara quanto il poliziotto che io, in un momento di distrazione, ho dato un’occhiata al libretto. E scommetto che questo enorme ungherese con il ghigno non parla italiano.
Il libretto dice così:
‘I posti totali del camper sono sette
di cui due posti sono riservati al guidatore e al passeggero accanto.’
Con l’indice gli dico di no. Poi faccio un nove con le dita indicando tutto il camper. Poi faccio un sette indicando i miei compagni dietro, poi incrocio gli indici a fare un ‘più’ e poi scivolo sul due. E ripeto il gesto scandendo: – Sette più due fa nove. E riporto le mani sul nove. Mi sembra di insegnare ad Amelia come contare.
– Nove. Ok? Ci entriamo in nove. Sette dietro e due davanti.
E poi penso: ’Stronzo’
Credo Mariangela mi legga nel pensiero, è vigile, sa che rischiamo. Giurerei però abbia accennato un sorriso. Io guardo lui, ripeto:
– Nove.
Non mi fa paura mentirgli, non mi fa paura lui, non mi fa paura la tetra frontiera in cui mi trovo. Ho paura di altro, ma ancora non riesco a vederlo.
Mi guardo nello specchietto retrovisore, distolgo subito lo sguardo.
Il poliziotto mi guarda. Guarda il libretto. Da questo dipende l’esito del viaggio, mi sono preso la responsabilità di mentire e mettere in pericolo tutti i miei compagni.
Se me lo avesse controllato Amelia il libretto del camper, pur di non mentirle, l’avrei ingoiato. Ma ora davanti a me ho questo grosso poliziotto ungherese che si erge tra me e l’Ucraina e il culo che mi sono fatto fin qui.
‘Pensi sia la prima volta che menta? Bello mio, non sai chi hai davanti’.
Chiude il libretto e lo stringe tra le due mani. Sospira.
La pioggia smette di cadere, tutti sul camper hanno seguito la scena, intuendo qualcosa ma non la bugia. Nessuno respira, tutti attendono che il poliziotto parli.