Nei capitoli precedenti:
- Capitolo 1 – Il sorpasso
- Capitolo 2 – Frontiere
- Capitolo 3 – In caso di morte
- Capitolo 4 – Terra di nessuno
- Capitolo 5 – Dentro
- Capitolo 6 – Bestialità
- Capitolo 7 – Droni
- Capitolo 8 – Sirene
- Capitolo 9 – Odessa
Decimo capitolo – Bilanci
Il volo per Roma parte in mezz’ora. Mi hanno lasciato all’aeroporto. Il braccio mi prude per via del cerotto sulla piccola ferita lasciata dall’ago della flebo. La testa mi va a fuoco. L’aeroporto di Amsterdam ha luce da ogni vetrata, metto su gli occhiali da sole, ho gli occhi gonfi e affaticati. Sono uscito all’alba dall’ospedale e ho fatto subito il biglietto per andarmene di qui. Mi viene da piangere ma, alla fine, non ci riesco.
Ho addosso la sensazione della pelle che si squama e ancora sudo. La fila è lunga, è pieno di gente e sento tutti troppo vicini a me, tutti rumorosi: chi mastica gomme, chi parla al telefono; sento un cane abbaiare e una bambina piangere, due fidanzati litigare. Tutto in pochi metri intorno a me. Mi aumenta il battito cardiaco e non voglio essere qui.
Mi gratto la faccia con il palmo della mano. La fila avanza. Le persone mostrano biglietto e documento a una poliziotta con gli occhi nocciola e i capelli mossi che sembrano piccoli punti interrogativi.
I rumori mi scavano nei timpani, mi copro le orecchie con le mani e respiro.
Dopo una famigliola, tocca a me. Mi suona il telefono, ma non rispondo. La poliziotta mi fissa. Perché mi fissa? Sa che sono drogato?
Ti prego non fare storie, ti prego fammi passare non lo reggerei un controllo, ti prego. Ma perché mi guarda e non sbriga il gruppetto prima di me?
Mi tocco le guance, umide. Il telefono squilla. La poliziotta si chiederà perché non rispondo. Metto una mano in tasca e lo muto. Tocca a me.
— Ecco, documenti e biglietto.
Glieli spingo in mano.
Lei mi guarda. Mi scruta, lei sa. Lei vede drogati ogni giorno. Mi faranno un test e mi costringeranno a restare. Magari mi arresteranno. Suona di nuovo il telefono. Se rispondo ora, sembrerò normale. Suona, ma non riesco a riprendere i documenti, a rispondere e a non grattarmi la faccia che mi prude.
La poliziotta mi parla, mi squadra e mi chiede qualcosa.
Non ci credo. Non riesco a capirla, parla velocissima. Il telefono mi scivola a terra ai suoi piedi. Mi piego, sento i suoi occhi, li sento e ora mi prende e mi porta via. Quasi genuflesso mi scuso in italiano mentre la testa mi oscilla e mi viene un conato di vomito.
Mi rialzo e respiro e la poliziotta sta lì che mi guarda. Ripete qualcosa, ma questa volta fa cenni con le mani, crea in aria una figura rettangolare, e ripete scandendo:
— Ticket.
Rido. Dentro di me perché fuori sudo il volto contratto, ticket. Certo. Il biglietto. Il cazzo di biglietto. Rovisto nelle tasche e glielo metto in mano sorridendo con il volto piegato verso destra.
Mi concentro. Resto paralizzato sul sorriso, sulla massima estensione della bocca. La guardo. Lei mi guarda, guarda la fila e muove il braccio per indicarmi la via.
Mi fa passare. Mi resta addosso lo sguardo inquisitorio anche se ormai sono nel tunnel verso l’aereo. Sento che sto per piangere. Ma niente.
Il telefono continua a squillare. Entro nell’aeroplano, due hostess olandesi alte con gli occhi blu mi sorridono, mi sembra i denti siano grigi e appuntiti e il respiro mi si ferma. Ma è solo un attimo, tornano subito bianchi perlati e dritti. Mi gratto le gambe e sento in tasca un foglietto scrocchiare, lo prendo. È il referto in inglese dell’Amsterdam Hospital.
“Attacco di panico acuto dovuto a ingerimento di sostanze stupefacenti psicotrope, oppiacei misti a funghi allucinogeni. Somministrati due Tavor. Consiglio riposo e idratazione”.
Accartoccio il foglio e lo metto via.
Raggiungo il mio sedile, sono vicino a due fidanzati. Chissà se sono felici. Magari si sono drogati insieme per tre giorni e poi hanno scopato e creduto nell’amore eterno. Mentre io leccavo le mattonelle del pronto soccorso. Questo me lo ricordo bene, pure il sapore di muffa e alcool.
Mi siedo e suona ancora il telefono. I fidanzati mi guardano, ma quando li guardo cambiano espressione e spengono il sorriso che mi volevano propinare. Meglio:
— Sto fatto come una pigna da ieri, stronzi. — Lo dico, sorrido e sudo. Tanto non capiscono un cazzo saranno inglesi. Infatti mi guardano con gli occhi persi.
Ancora mi squilla il telefono. Penso a come gestirò il Palazzo del Freddo. Penso di non essere in grado e di non averlo mai voluto davvero, di volerlo solo perché la paura di essere altro è più grande. Sarà sempre in perdita il bilancio emotivo se non mi faccio aiutare. Devo trovare aiuto, perché sennò mando tutto a puttane.
Sento un rumore appiccicoso, mi giro e i due si baciano avvinghiati come crema e cioccolato, hanno le bocche spalancate e riesco a vedere le lingue. Mi muovo, mi aggiusto sul sedile e mi tocco la faccia, me la gratto per bene.
Dai che si baciano ancora. Io li vedo a tratti sfocati. Ma che fa lei? Noo. Mi guarda e muove una mano, la muove dentro i pantaloni di lui. E fissa me. Mi fissa e fa una sega al fidanzato. Oddio. Mi do uno schiaffo, forte, deciso, che schiocca per bene. Ma non ho più il coraggio di girarmi, no, non mi girerò.
Sai che storie quando torno. E chi mi crede?
Rido. Forse troppo, forse esce un suono tanto grottesco da far fermare i due ragazzi. O forse non avevano mai iniziato. Sento che mi guardano, un po’ come mi guardava la poliziotta al controllo biglietto e passaporto.
Sussurro: — Vi accannerete sicuro, o lui si scoperà un’altra o diventerà noioso e lei si innamorerà di uno come me. Pensa, coglione, che ti fa le seghe e mi guarda.
E mi squilla ancora il telefono. Ecco, ora rispondo perché ho pensato a questi due sfigati pure troppo.
— Amore. Ma cazzo, cazzo. Stai bene?
— Oh, stai calma.
— Ma come stai? Ti sto chiamando da questa mattina, non puoi tenermi così.
— Così come?
— Appesa, in pensiero. Hai fatto una cazzata, lo sai?
— Eh, la prima della mia vita, la prima in cui non ho perso il controllo.
— Ma ti pare? Stai fuori. Fuori. Mi sono cagata sotto.
Resto in silenzio.
— Appunto, resta in silenzio. Ti vengo a prendere all’aeroporto e parliamo.
— Sì. Ok.
La voce del comandante dall’altoparlante parte e sovrasta la mia telefonata:
— Ladies and gentlemen, welcome…
— Attacco adesso, a dopo.
— A dopo, Andrea.
Mi muovo un po’, oscillo. Non riesco a stare fermo. I due fidanzati hanno smesso di baciarsi e tutto il resto. Niente peep show in volo.
Lui deve avercela con me dato che mi guardano con la coda dell’occhio, spaventati o irritati, non saprei.
Penso che la strada che mi ha portato fino al Palazzo del Freddo sia malata. Io non so fare il gelato, io non amo il gelato, odio i dolci.
L’ hostess passa nel corridoio e mi guarda. Ha le pupille verticali, potrei giurarlo. Sbatto gli occhi e le sue pupille tornano a posto.
— Eh eh. Pensa se ci resto sotto per sempre per un weekend ad Amsterdam.
Ridacchio.
I due ragazzi si stringono, il più lontano possibile da me. Tiro su la maglietta e mi odoro, sì, puzzo.
Per quanto la Ryanair abbia sedili minuscoli, i due riescono a tenere uno spazio sufficiente tra loro e me, forse per sentirsi più sicuri nel loro nido del cazzo o per non sentire il mio odore.
Mi allaccio la cintura, non riesco al primo colpo, piglio il buco al quarto.
Ho consegnato un business plan fatto a caso, non ho idea di come muovermi, non ho più alcun desiderio ora che sono il capo, da solo. Ma una vocina dentro di me me lo diceva, troppo flebile e immatura per farsi sentire. Mi diceva:
— Ma tu questo vuoi fare davvero? Ma sei sicuro che sia la tua strada? O ti serve solo per mettere in ordine il casino della tua famiglia e per essere visto facilmente da tutti? Ma ti piace fare il gelato? Eh? Ti piace, Andrea?
Mi muovo a scatti, non oscillo più. Cerco la posizione adatta ingombrando il sedile del mio vicino, ormai spiaccicato sulla sua fidanzata.
No, non mi piace fare il gelato, ma non so cos’altro fare. Così ho silenziato pure la vocina.
Incontro sempre mio nonno in questi primi giorni di lavoro come Amministratore Delegato qui al Palazzo del Freddo.
— La gelateria va da sola, devi capire questo. — Mio nonno mi ripete le stesse cose da quando ho dodici anni.
— Da sola. Devi solo avere qualche accortezza, ma va da sola. Tuo padre e i tuoi zii non c’hanno mai capito un cazzo. — E poi se ne va.
Dall’età di dodici anni ho il dubbio che in questa frase qualcosa non torna. Io ho la presunzione di credere che farò meglio di tutti, è la conseguenza della paura, la paura fa così: o ti blocca o ti fa inventare storie.
Però so una cosa, che il pesce puzza dalla testa. E la testa è lui. Questo non significa che, nella complessità relazionale di una famiglia che ha ’sto macigno ereditato, non ci si possa voler bene. Ma se il pesce puzza dalla testa, e la testa è lui, non credo che i miei zii e mio padre non c’abbiano mai capito un cazzo. Anzi.
Quando parlo con mio nonno, tendo a non fermarmi, ma a tirare per andarmene. Un passetto alla volta, un movimento quasi impercettibile che lascia un pezzo di me fuori dalla conversazione.
Entro in gelateria. È piena di gente. Ma ancora paghiamo lo scotto della notizia coreana. Quanto è passato? Quattro anni? E tre da quando sono tornato da Amsterdam. Da lì nulla è più stato uguale.
Mi gratto il naso, mi aspetta il commercialista per la chiusura del bilancio 2018. Ha detto che deve parlarmi.
Lo vedo, è già sotto l’ufficio che mi aspetta. Nico ha un po’ di anni più di me, è stato ed è la mia salvezza. Quando lo guardo, realizzo il concetto applicato di competenza. Sa tutto e quello che non sa, lo studia.
— Anche quest’anno è andata, eh.
— Eh eh.
— Abbiamo centrato gli obiettivi ogni anno da quando sei arrivato. L’avresti detto, Andrea?
— Nico, lascia stare. Al massimo avrei scommesso sulla chiusura.
Ridiamo insieme. Sono così lontano dal suo modo di lavorare e dai suoi clienti, che ormai sono certo di stargli molto simpatico.
— Sei in utile, basso quest’anno, ma abbiamo speso molto per i dipendenti.
Mi piace dica “abbiamo”.
Nico ha dissipato la mia solitudine, quella lavorativa. Si fida di me e delle mie intuizioni e questo per me è aria limpida da respirare a pieni polmoni.
Il vociare delle persone sale.
— Lunedì abbiamo il consiglio di amministrazione, bisogna spiegare perché i salari sono aumentati, l’inflazione come incide sui vari trattamenti di fine rapporto, che ti ho già detto dieci volte dovresti trovare il modo di gestire. O li liquidi o li investi.
— Mm mmh.
— Mi ascolti?
— Sì sì, sai. Sono felice.
— Bene.
— Non mi chiedi perché?
— Perché la sto facendo funzionare. Ma manca ancora molto.
— Molto per cosa?
Il rumore è assordante. I soffitti alti causano un rimbombo che rende difficile parlare, ma sono così belli. Mi distraggo e guardo la sala in tutta la sua ampiezza. Era una rimessa per carrozze e cavalli, una stalla. E il mio bisnonno che ha fatto, l’ha comprata e ha tirato su un palazzo intero.
— Andrea, manca molto per cosa.
— Manca molto, Nico. La gente che viene è un indotto storico, ho recuperato sì, ma io voglio farla tornare ai fasti di una volta, Nì.
— Più di così? Hai superato il fatturato della gestione precedente in tre anni. I tuoi eventi iniziano a funzionare.
— Lo sai che mi sono drogato una volta?
— Scusa?
— Sì, all’inizio. Non ci conoscevamo ancora, stavo ancora con Giorgia.
— Ah, perché me lo dici?
– Boh, perché alla fine funziono. Sembro mezzo rotto ma funziono. Te lo dico per farti capire lo sforzo che faccio.
— Ma io lo vedo, ho due figli e ho un po’ più di anni di te.
— Lo vedi?
— Andrea, certo.
Tossisco. Guardo sotto all’ufficio. Un gruppo di persone mangia gelati enormi, troppo grandi. Sto sempre sul pezzo quando esagerano con i coni i ragazzi al banco con la mano pesante, già li diamo grandi per tradizione.
— Io qui non c’entro niente. Ma c’ho questo calore, questa rabbia di ridare lustro, di primeggiare qua dentro. Non per me. Per il mio bisnonno.
— Non per te?
— Non come molti pensano. Io sono egoriferito spesso, è vero, ma qui c’è tutto un nero opaco che mi porto dietro. ’Sta gelateria è insultata da quattro stronzi del settore, da gente che non esisteva neanche quando qua già stavamo alla terza generazione. Per rispetto, Nico, devo mettere tutto a ferro e fuoco, questo manca, Nì. E ci riuscirò un pezzo alla volta, finché tutti mi vedranno per quello che sono.
— Woo. Pensiamo al bilancio, dai.
Mi sa che ho esagerato. Ma è vero.
Chissà se è ancora il commercialista del padre di Giorgia, da dopo Amsterdam le cose sono scivolate male, molto. Ma mi pare che sia sempre così, cronache di devastazione annunciate.
— Torniamo al bilancio, problemi non ce ne sono quindi, siamo sempre in utile.
— Ecco, di questo volevo parlarti. Sì, un problema c’è, e devo spiegartelo per bene.
In quel momento sale mio nonno. E mi indica. Come fa lui, dito indice e ti comanda di raggiungerlo perché deve dirti una cosa importante. Che poi sono sempre le stesse cose. Io gli faccio cenno con il viso che sono con una persona, non un Labrador. Il dito resta fermo e poi continua a muoversi verso di lui, indica me e poi sé stesso. Alzo gli occhi al cielo. Nico annuisce e mi alzo, per raggiungere mio nonno.