Nei capitoli precedenti:
- Capitolo 1 – Il sorpasso
- Capitolo 2 – Frontiere
- Capitolo 3 – In caso di morte
- Capitolo 4 – Terra di nessuno
- Capitolo 5 – Dentro
- Capitolo 6 – Bestialità
- Capitolo 7 – Droni
- Capitolo 8 – Sirene
- Capitolo 9 – Odessa
- Capitolo 10 – Bilanci
- Capitolo 11 – Mansplaining
- Capitolo 12 – Rete di sicurezza
- Capitolo 13 – Cibo da ridere, cibo da piangere
Quattordicesimo capitolo – Maglie
Guardo questo gruppo di persone che ballano e cantano e io sto seduto su un muretto fuori dal centro Youth of Ukraine. In pochi minuti ci sposteremo. Prima del coprifuoco, qui è alle ventuno mentre nel resto del paese è alle ventitré, dobbiamo essere nel luogo dove dormiremo.
La condivisione aiuta in luoghi come questo. Guardo il nostro camper.
Le motivazioni della guerra moderna sono a strati. Se scavi, scopri che sotto ogni strato ce n’è uno con maglie più strette, passa meno luce di strato in strato ed è via via più difficile comprenderlo. In alto c’è la motivazione dell’identità, poi quella della territorialità, poi gli interessi geopolitici, maglie sempre più strette, finissime, quasi non passa l’aria, poi i soldi, poi il potere. Perché facciamo la guerra?
È come quando si inizia a grattare la superficie delle cose che ti riguardano. Trovi uno strato più sotto. E ancora un altro e fatichi sempre di più a comprendere perché fai quello che fai.
E se sei così fortunato da trovare una persona che capisce questo, che capisce le tue maglie, una sotto l’altra, e te le sfila come strati di pelle senza ucciderti, arrivi al punto. Arrivi al motivo per il quale ti fai la guerra ogni giorno. Se questa persona non la trovi, se te la fai scappare, se non la cerchi, le maglie alla fine ti intrappoleranno.
– È ora, andiamo. Ci aspettano alla scuola. – Mariangela è sempre risolutiva, anche quando non sa cosa penso.
Ha radunato tutti. Ci teneva partecipassi ai balli, condividessi, ma mi sono dileguato e forse non se ne è accorta. E può andare bene così per me.
Il camper è acceso.
– Salite, domani sera saluteremo tutti, abbiamo molto da fare.
La scuola dove dormiremo dista pochi chilometri. Una sola volta sono stato in una scuola di notte. Non ricordo quando, forse al liceo. Arriviamo in pochi minuti.
Questa è una scuola elementare, un casone grigio alla fine di una lunga strada nera. Luci al neon senza interruzione illuminano l’entrata e il cortile, grosse finestre buie ci guardano.
Ci sono momenti in cui vorrei un po’ di silenzio, il punto è che ogni volta che sento di volerlo, parlo. Pur di non immergermi nel silenzio parlo di qualsiasi cosa.
– Non ho mai dormito in una scuola, forse al liceo.
– Con le coperte della U.S. Army? – Diletta mi fa l’occhiolino.
– Eh?
– Ora vedi, sbrighiamoci a scaricare le cose.
– Hanno allestito qui per tutta la carovana? – Chiedo a Silvia.
– Sì, dovremo stringerci un po’, mica è comodo. Ma non vedo l’ora di dormire, sono distrutta.
A me sembra che lei abbia più energie di me, non è la prima volta che lo penso.
– Cos’hai?
Diletta mi tira la giacca.
– Eh?
– Cos’hai?
– In che senso?
Lo zaino mi pesa, e sono preoccupato.
– Niente, perché?
– Sembri preoccupato.
Oh, ma guarda te che le voglio già bene. Ha ’sti occhi intelligenti e Giulio, il suo compagno nell’altro veicolo, è come lei. Hanno energia che sanno spruzzare sugli altri, tipo quegli spruzzini d’acqua fresca nei grossi giardini. Loro questo sanno fare, anche quando non pensano di farlo.
– È un viaggio strano. Non saprei dirtelo bene.
– Sì, immagino, ma come ti senti?
Oh, sì che lo so, saprei per filo e per segno, con il tono giusto, dirle tutto. Tutto fin dove sono arrivato. A toglier maglie, dico. Fino a poco tempo fa credevo di aver tolto quasi tutto, poi mi sono incastrato, tipo tartaruga, e mi sono accorto di essere incastrato ancora su in superficie. Per girarmi ho fatto una strage. E ora, con fatica, sto ricominciando neanche so da dove. O forse sì.
Come glielo spiego?
– Sono curioso di vedere dove dormiamo, cosa accadrà domani in centro a Mykolayv e nel quartiere dove dobbiamo andare.
– Uhm.
– Uhm?
– Dai, scarichiamo, non ti va di parlare.
Resto in silenzio, le prendo una busta che ha in mano.
– Ce la faccio.
Era chiaro.
– Ah vero, mansplaining.
Entriamo nella grossa scuola, due addormentati dentro una guardiola aprono un occhio per uno e annuiscono senza indirizzarli verso nessuno in particolare.
Saliamo delle scale, c’è chi è già arrivato. Quelli di altre città, con altri mezzi propri, ovunque dall’Italia. Io scavalco dei sacchi a pelo, seguo Silvia che è diversi passi più avanti a me. Lei si ferma a salutare un uomo anziano, dal fisico scolpito per l’età che ha, io mi fermo poco prima e attendo. In silenzio. Loro parlano di missioni e di associazioni, io ascolto e mi guardo intorno. Fornelli da campo per il caffè della mattina, cibi in scatola, libri. Sono tutti organizzati, come il nostro camper. Alcuni di loro li avevo già visti il giorno della visita all’ospedale pediatrico di Odessa.
Silvia riparte e io dietro a lei, dopo aver sorriso al tipo.
Dentro l’aula che ci spetta ci sono materassini bassi stesi a terra coperti da coperte della U.S. Army, quelle che si vedono nei film. Mentre sto per parlare, entra un ragazzo. Intuisco subito sia il responsabile, dallo sguardo. Parla italiano.
– Buonasera anche a voi! E benvenuti.
– Buonasera! – Rispondiamo tutti insieme.
– Spero siate a vostro agio. Questo è il meglio che possiamo offrirvi. Siamo a pochi chilometri da un luogo in cui le persone muoiono. Qui siete al sicuro, ma dovete rispettare delle regole.
Annuiamo tutti, io guardo gli altri. Sono concentrati e anche io pendo dalle sue labbra.
– Funziona così, potete usare il wi-fi concessoci da Elon Musk. La rete è Starlink, copre via satellite tutta la zona rossa e oltre, per permettere connessioni velocissime. È una rete sicura per noi. Ma niente geolocalizzazione. È fondamentale. Niente foto o condivisione.
Elon Musk, io non ho ben capito se sia un pazzo o un genio, però ha messo a disposizione a una nazione intera il più veloce sistema di connessione Internet del mondo.
– Poi, ed è la cosa importante: qui gli allarmi NON si possono ignorare. Venite da zone scosse emotivamente, ma più tranquille. Qui se c’è un allarme dovete eseguire. E non fare altro.
Deglutisco. Penso ad Amelia.
– Seguite il corridoio, – indica con la mano la direzione, – Alla fine c’è una porta tagliafuoco e una zona di sicurezza. Lì ci sono beni di prima necessità e mura solide più del cemento. Non può succedere niente. Chiunque voi siate, siete stati coraggiosi a venire qui, anche se non lo percepite perché è tutto molto veloce per voi, per l’Ucraina è tanto. Per le persone che incontrate è tanto.
Abbassiamo tutti lo sguardo. La coralità del gesto mi stupisce. In un momento così delicato, ci viene automatico reagire d’istinto tutti allo stesso modo.
– Buonanotte a tutti, riposatevi.
– Buonanotte –, rispondiamo.
Metto un paio di pantaloncini e una maglietta della Sea Shepherd. Guardo il loro logo. Mi spiegarono il significato su una loro nave in Australia una ventina di anni fa.
Sfondo nero, teschio con dentro un delfino e una balena e sotto, incrociati, un bastone da pastore e un tridente.
La maglietta ce l’ho da quando salito sulla nave come visitatore, era ormeggiata a Sydney, volevo salpare per qualche mese con loro. La Sea Shepherd è un’associazione che difende i mari dai pescatori abusivi.
Il distaccamento dell’Antartica, quello che conobbi io, è praticamente pirateria moderna con buoni propositi.
Ma perché ci sto pensando?
Mi spiegarono che riadattarono l’ultima versione del Jolly Roger disegnata dal Capitano pirata Jack Rackham, che aggiunse al nero le sciabole incrociate. Infilo i pantaloncini e mi sdraio.
Tocco il logo rovinato dal tempo. Lo sfondo nero per la Sea Shepherd rappresenta l’estinzione, la morte dell’ Oceano. Il teschio umano ne rappresenta la motivazione: è l’uomo che lo sta distruggendo, che sta disintegrando una sua fonte di vita. Delfino e Balena, maschile e femminile, sono posizionati come lo Yin e lo Yang, simboleggiano le forze che collaborano per ristabilire armonia in mare. Perché se l’oceano muore noi moriamo.
Il bastone del pastore indica protezione, mentre il tridente rappresenta l’intransigenza, l’azione diretta per difendere il mare. Insieme significano azione diretta non violenta.
Accarezzo la maglietta. Azione diretta non violenta. È quello che stiamo facendo qui, più o meno. Mi rendo conto che mi sto muovendo. Che avrò anche ricominciato un po’ daccapo, che mi sento a pezzi e che ho usato molta violenza verso me stesso e chi mi è stato intorno.
La verità è che non ho paura. Che ognuno cerca di salvare qualcosa nel mondo per salvare un pezzo di sé. Le maglie potranno anche tenermi imbrigliato, come una balena nella rete di cacciatori di frodo giapponesi che, a immaginarli questa notte qui al buio, sotto una coperta militare, hanno tutti la stessa faccia: la mia. Quel pezzo di me da salvare indossa la maglietta Sea Shepherd, e magari finirà anche su una loro nave; ora però è qui in Ucraina che, piano piano, cerca di infilarsi tra le maglie, in un modo o nell’altro.