Nei capitoli precedenti:
- Capitolo 1 – Il sorpasso
- Capitolo 2 – Frontiere
- Capitolo 3 – In caso di morte
- Capitolo 4 – Terra di nessuno
- Capitolo 5 – Dentro
- Capitolo 6 – Bestialità
- Capitolo 7 – Droni
- Capitolo 8 – Sirene
- Capitolo 9 – Odessa
- Capitolo 10 – Bilanci
- Capitolo 11 – Mansplaining
- Capitolo 12 – Rete di sicurezza
- Capitolo 13 – Cibo da ridere, cibo da piangere
- Capitolo 14 – Maglie
- Capitolo 15 – Il Gambero Rotto
- Capitolo 16 – Suoni
- Capitolo 17 – Taxi
- Capitolo 18 – Fame
- Capitolo 19 – Congelare
- Capitolo 20 – Punto di vista
- Capitolo 21 – Colori
- Capitolo 22 – V
- Capitolo 23 – Ragni
- Capitolo 24 – Cani
- Capitolo 25 – Parole
- Capitolo 26 – Fotografia
- Capitolo 27 – Silenzi
- Capitolo 28 – L’uomo rosso e la dama nera
- Capitolo 29 – Foglio bianco
Trentesimo capitolo – Pelle
Ucraina ’23
“… Questa notte ripartiamo per l’Italia”. Stavo scrivendo. Preso dalle parole, non mi accorgo che il van è partito.
“Per l’Italia. Questo significa che in due giorni sarò a casa, sempre che non succeda qualcosa.
Giovane imprenditore colpito da un drone perde la vita.
Avrebbe tanto voluto fare lo scrittore. Avrebbe tanto voluto vedere la figlia adulta. Avrebbe tanto voluto vivere in pace. Era una brava persona. Era così carino”.
Il cielo nero sopra il van che rientra al quartier generale di Youth of Ukraine mi rattrista.
“Magari la notizia in Italia avrebbe un’enorme risonanza, un po’ per il cognome un po’ per la particolarità del caso.
Chissà chi mi piangerebbe e come.
Magari la televisione si incuriosirebbe di questo morto in guerra di una guerra che non solo non è sua, ma che, quando il drone gli ha prima fatto saltare le braccia, poi lacerato il petto e poi fatto esplodere la testa, pensava a tutt’altro. Solo un nano-secondo prima di morire, quando in un lampo ha compreso l’arrivo della morte, prima che le vene scoppiassero, ha visto sua figlia.
Non sarebbe una gran notizia di per sé o meglio lo sarebbe per poco tempo”.
Chissà dove voglio andare a parare, penso mentre giocherello con la penna. Il van cammina e siamo ormai nei pressi dell’ostello dove saluteremo i ragazzi ucraini che ci hanno accolto.
“Quindi, dicevo, la notizia rimbalzerebbe forte in Italia. Chissà che foto sceglierebbero. Magari qualcuno mi scatta una foto a pezzi sull’asfalto. Uhm. No, una roba così macabra non è da questo tipo di situazione, io in effetti non ero in guerra. Non ci sarebbe motivo di tanta morbosità.
Però diventerei famosissimo per qualche giorno per un motivo diverso dal gelato. Del gelato avrei solo la consistenza. Chissà i pezzi di me che riporterebbero in Italia. Ecco, vorrei riportassero gli occhi, il cuore si squaglierebbe sull’asfalto. Gli occhi invece reggerebbero il gioco pure da morto. Piangerebbero a pensare che Amelia non mi vedrà più, anche dopo morto”.
Immaginare una situazione simile mi strozza in gola il respiro, alzo la penna dal foglio, poi la ributto giù.
“Qualche giornalista scaverebbe nel mio passato, nel mio intimo. Ho poco da nascondere di reperibile, se i segreti avessero consistenza rimarrebbero sull’asfalto a Mykolaiv”.
A proposito di segreti.
Strappo un pezzo di carta da una pagina alla fine del taccuino. Scrivo qui il mio segreto, lo scrivo e se muoio il mondo lo saprà. Anzi no, no, non mi va si sappia. Voglio, se proprio devo morirci, portarmelo con me, al massimo è più scenico trovarlo sull’asfalto. Esplode il corpo, si scioglie il cuore e si rivela un pezzetto di carta con su scritto qualcosa. Che storia”.
Punto la penna sul pezzo di carta frastagliato, strappato ai bordi mentre il van saltella sulla strada.
Io scrivo tutto storto. La mia calligrafia è pessima, durante il Covid quando Amelia era ancora nella pancia di Domitilla e cresceva, provai un corso di calligrafia. Niente. Sono totalmente negato. Scrivo con la mano destra come un ragazzino delle medie e con la sinistra come un bambino delle elementari. Colpa di una maestra che mi corresse:
–La sinistra è la mano del diavolo – diceva.
Vado tutto storto. Però ho usato ’sta storia della correzione da bambino per intenerire alcune ragazze al liceo, per giustificare il mio parlare parlare parlare e non concludere niente. Un paio c’hanno creduto così tanto che si sono innamorate e alla fine c’ho creduto pure io, al deficit per il cambio di mano, non al diavolo.
Scrivo il mio segreto mentre il van saltella, poi appallottolo la carta, apro la bocca e la spingo giù dietro la lingua, in gola, e inghiotto; ho un conato di vomito che passa subito.
Poi riprendo il taccuino da dove avevo interrotto.
“Quindi, riporterebbero gli occhi. La vera notizia però non sarebbe questa. O meglio, eccola.
Nessuno si è accorto che, nell’istante dopo essere saltato in aria come un pomodoro, dopo che l’immagine di Amelia mi è apparsa, il cuore si scioglieva sull’asfalto ed ecco lì che il desiderio di vederla crescere, di vivere e difenderla finché possibile, mi ha letteralmente ricomposto altrove.
L’esplosione, dopo lo zampillare via del mio lato primordiale, della pelle dura e finta, mi ha solo assorbito e sputato altrove.
Il cuore sciolto a terra è colato fino a Roma. Riapparirei qualche settimana dopo al Palazzo del Freddo. Il panico. Vedo già le testate giornalistiche. Un Gesù moderno, direbbero i miei amici, tornato dall’Aldilà per amore della figlia, direbbero altri.
Fisicamente credo sia possibile, tutto è possibile tranne quello che non si ha il coraggio di ottenere”.
Il van entra nel parcheggio dell’ostello e io poso la penna, ci attende il capo del gruppo Youth of Ukraine, lo salutiamo tutti insieme, parla qualche parola di italiano.
Io scendo, i ragazzi restano a parlare con lui e mentre mi allontano incontro un gruppetto di persone. Tra loro riconosco Erri De Luca, lo scrittore. Me lo trovo davanti. Ho letto un paio di suoi libri e un suo libretto sui sensi che uso durante le lezioni della scuola Genius. Vorrei dirglielo ma non riesco. Ha la faccia da scrittore, la pelle da scrittore, il corpo da scrittore, le mani da scrittore, il respiro da scrittore. È pure lui qui per aiutare, chissà se scrive mentre viaggia con il pulmino e il suo amico.
Penso al mio corpo esploso sull’asfalto con gli occhietti verde Tevere che rotolano, niente saprebbe di scrittore, nulla.
Mi viene da sorridere.
Mi avvicino. Ci parlo. Glielo chiedo, gli chiedo se scrive e cosa gli muove la mano.
Ha gli occhi blu scrittore, belli. Si vede che sono blu scrittore dai contorni antichi, dal blu che sfuma verso l’ignoto.
No non ci parlo. Che gli dico? Sono piripì e piripà e sono qua e io ammiro chi scrive e bla bla bla, vorrei scrivere, vorrei, vorrei, vorrei. Che sfigato, madonna.
Però se muoio magari un mio mezzo racconto, che ha vinto un mezzo premio in provincia di non mi ricordo cosa, magari esploderebbe. Ecco, postumo mi piacerebbe. Riprendo a scrivere sul taccuino.
“Aveva un dono, la vittima, che non è riuscito a coltivare davvero perché aveva troppa paura. Forse i miei amici di Genius renderebbero Papille, il mio romanzo in fase finale di editing, pronto per la pubblicazione anche dopo che sarò morto, ecco, questo sarebbe bello. Luigi lo farebbe, metterei la mano sul fuoco su di lui. Se però poi torno vivo?
Ma la notizia è che sono riapparso, non divagare, Andrea, non distrarre dal punto come fai sempre, non manipolare te stesso. La vecchia pelle morta è rimasta spiaccicata vicino a quella piazza di Mykolaiv, quello è il vecchio Andrea, quello che era in fissa con il pezzo del film di Iron Man in cui Tony Stark, Robert Downey Jr., durante una conferenza stampa dove dovrebbe solo rimanere in silenzio e non parlare di Iron Man, dice:
– Io sono Iron Man.
Ed esplode la sala gremita di giornalisti. L’ho sempre invidiato, Tony Stark.
Quello nuovo invece, l’Andrea riapparso, resterebbe in silenzio, stanco, eviterebbe di raccontare la sua storia per fare i conti con se stesso”.
Erri De Luca si allontana. Lo lascio andare. Ti pare che lo fermo? Lui trasuda scrittura, io trasudo boh.
Sparisce tra la gente e io mi calmo.
Questo viaggio è stato un po’ fortino, penso.
Mi avvicino al camper, ci sono Mariangela, Anna, Diletta, Raffaella, Silvia, Cecilia.
– Oh, ragazze, mai visto uno stuolo di gnocca simile.
Lo dico con il tono giusto, l’inflessione giusta, l’affetto giusto che tutte ridono e mi rimproverano per una misoginia di fondo.
Ridiamo tutti insieme.
– Si riparte? – Aggiungo poi, serio.
– Sì, – risponde Silvia, – Sembra si debba partire a breve per arrivare questa notte a Uman o dintorni, in questo modo potremo dormire lì e domani con altre dodici ore di viaggio raggiungere la frontiera con l’Ungheria.
È una viaggio infinito, penso mentre annuisco. All’andata l’adrenalina, la novità, l’inconsapevolezza hanno reso il viaggio più breve. Ora siamo carichi di tensione e stanchezza, sembra un’Odissea.
Certo, penso, Erri De Luca lo devo beccare. Com’è sentirsi uno scrittore? Questo vorrei chiedergli. Anzi no, più preciso, come ho detto prima? Cosa ti fa muovere la mano che scrive?
Mi appoggio dentro il camper, ricomincio a scrivere.
“Io so cosa significa essere riconosciuti: ho il gelato come riflettore puntato. Facile. Mi piace essere visto perché in realtà mi sento invisibile su tutto il resto. So io chi e come riesce a vedermi del tutto, è scritto nel biglietto che ho ingoiato.
Ma la scrittura non è il gelato e il gelato non è uno scudo solido, così resto nascosto.
Magari negli occhi di Erri De Luca, un uomo riconosciuto per la scrittura, per avere un flusso aperto che pesca nella coscienza universale, c’è l’antidoto. Ma non gli chiederò niente. Lascerò guizzare via l’opportunità, troppo codardo per specchiarmi dentro precise parti di me, poi in occhi di altri figuriamoci.
Sia mai tutto il non detto si illuminerebbe a giorno, insomma il lato oscuro che punge anche gli occhi di De Luca è bene non scomodarlo, chi ce la fa?
Io sono bravo solo a giocare nel visibile, per ora però. Perché il foglietto ingoiato brucia, inizia a sciogliere il freddo, la lastra di ghiaccio sotto cui tutto è sommerso cederà.
Intanto una parte di me è spalmata sull’asfalto, gli occhi ancora rotolano, forse uno è esploso e dentro c’era l’universo, forse il riflesso del foglietto che ho ingoiato”.
Metto via la penna. È ora dell’ultima cena, veloce e spartana, nel cortile dell’ostello. Scendo dal camper.
Sono vivo e questa guerra qui la sto perdendo o forse sto solo cambiando pelle.
Riecco Erri De Luca, mi si avvicina, io gli sorrido, lui mi sorride a sua volta. Nascondo il taccuino, non deve vedere, non voglio mi veda, mi vergogno; cosa potrei dirgli se mi vedesse scrivere?
Sento salire su dalla gola un conato, il pezzetto di carta. Un altro conato. Mi allontano da De Luca e da chi si è radunato per la cena, giro dietro il muro laterale del grande edificio post sovietico.
Sento il foglietto grattarmi dietro lo sterno mi sa, i conati non cessano. Non voglio esca fuori, deve restare lì, deve essere digerito e polverizzarsi nel mio intestino e nel mio corpo.
Respiro, il petto si calma, i conati diminuiscono e un rigurgito acido e caldo mi assegna la vittoria del round. Il pezzetto di carta è di nuovo giù, il mio segreto è al sicuro.
Torno nella folla, che più che folla è un gruppetto numeroso; punto dritto Erri De Luca, mi avvicino, lo guardo e faccio per aprire la bocca ma di nuovo un conato mi muove con uno spasmo di gola e mandibole.
Lui non se ne accorge, io serro la bocca, indietreggio in cerca di un appiglio e l’occhio mi cade sul van. È ora di tornare a sedermi, attendere e partire per l’Italia, ma c’è qualcosa che non va in me.