Freddo: Capitolo 22 – V

Un edificio, dopo un’esplosione, non crolla. Si consuma, eroso dal dolore.

Nei capitoli precedenti:

 

Ventiduesimo capitolo – V

La piazza intorno all’edificio comunale di Mykolaiv è deserta. Ludovico appoggia lo zaino a terra con cura, lo apre e tira fuori una grossa Nikon. Toglie il tappo all’obiettivo riponendolo nella tasca esterna dello zaino. Nuvole scure si ammassano sopra le nostre teste e piccole gocce mi bagnano i capelli. Nell’aria, da quando siamo scesi dal van, mi segue un odore di umidità mista a metallo e fanghiglia che non mi ha lasciato un attimo. Guardo Ludovico e gli altri che si avvicinano al palazzo, in silenzio. Io non riesco ad avanzare, due mani invisibili mi bloccano, escono da terra e mi stringono le caviglie.

L’edificio ha le stesse tonalità grigie del Palazzo del Freddo, ma è due o tre volte più grande e meno scontornato, è un enorme rettangolo con uno squarcio nel mezzo. Una grossa V, le conseguenze del Kalibr che settimane fa gli è piovuto addosso. La V disegna un vuoto preciso; mi salta subito all’occhio un ufficio scoperchiato, una scrivania carbonizzata, i muri neri e pezzi di legno ammassati, si vedono i palazzi dietro, anche loro grigi ma interi, immobili alle spalle di quella V si perdono tra qualche albero annerito. Il verde appare sulle cime solo se si segue lo sguardo in profondità, verso gli alberi più lontani, i primi sono solo tronchi e rami secchi.

Faccio un passo in avanti, riesco a vedere altri uffici aperti, cavi che pendono come fossero liane e soffitti sventrati. Vorrei entrarci. Vedere da dentro il vuoto e restarci per un po’. È qualcosa che non so fare. Restare negli strappi, atterrare nel mezzo del dolore. Quindi mi fermo. Dovrei invece iniziare a correre, scavalcare le recinzioni e salire. Arrampicarmi e sedermi nel punto più alto e guardare giù, o dove magari un impiegato guardava fuori dalla finestra e d’improvviso ha visto arrivare il missile dritto sul suo ufficio, pochi istanti e ha sentito il corpo diventare incandescente e squagliarsi e fondersi sui resti del pavimento. Magari lì, in quel momento in cui la temperatura ha superato i cinquecento gradi centigradi, insieme a organi e ossa, in quel punto in cui si sono sciolti, insieme a carne e vestiti e ricordi sono fuse anche tutte le cose non dette, tutte le verità nascoste.

O magari no.

Magari ci raccontiamo storie per sopravvivere al freddo, ma quando un missile supersonico ti polverizza per poi squagliarti, l’unica cosa che pensi in quegli istanti è quella a cui penserei io: mia figlia.

Faccio qualche passo incerto in avanti, mentre la pioggia graffia il K-way verde. Un odore dolciastro si mischia al bagnato. Vorrei andarmene. L’odore dolciastro, acre, punge. Ma cos’è? Odore di bruciato. Ma non è possibile. Mi guardo intorno. Quante settimane fa è caduto il missile qui? Sei? Otto?

La piazza ancora vuota è recintata da quattro strati di filo spinato. Vedo in lontananza alle mie spalle, dalla parte opposta dell’edificio, un camion militare parcheggiato con due militari appoggiati al muso, mi sembra stiano parlando.

L’odore che si alterna all’umidità, ecco cos’è: è cherosene, o un combustibile simile. Mio nonno Leonida ha delle taniche in cantina, non posso sbagliarmi, è un odore che si spalma dentro le narici e resta anche quando esci all’aperto.

La pioggia ha smesso di cadere e si è alzato un lieve vento che spinge odore di fango bagnato e ancora odore di bruciato, carbonizzato dentro al mio naso. Svolazzano in cielo minuscoli pulviscoli di cenere. Guardo di nuovo il palazzo. I contorni della V sembrano sgretolarsi ancora, smussati come la crosta annerita di una pizza. Si sta letteralmente erodendo l’edificio, questo accade dopo un’esplosione troppo potente. Non crolla, si consuma, eroso dal dolore.

Annuso con attenzione, ormai non posso fare altrimenti. L’odore di carbonizzato è uno solo, non ha varianti: tutto ciò che viene carbonizzato dopo una certa temperatura ha lo stesso odore. Quindi in questo caso, in ordine: stoffe, legno, carne, carta, ossa, matite, penne, denti, quadri, capelli sono racchiusi in quello che sto odorando. L’odore porta con sé memoria, quindi anche verità, pensieri, menzogne. Inspiro di nuovo.

Mi gratto il naso. Ludovico, in ginocchio, fotografa l’edificio. Vorrei andare via, ma di nuovo non riesco a muovermi. Avanzo qualche altro passo, voglio dire alle altre insieme a noi che aspetterò indietro, prima della recinzione.

Un pensiero simile a una bolla d’aria che mi sale su rotolando per la spina dorsale: è il caso che vada sotto il palazzo e guardi il vuoto da vicino. Salire in un ufficio sventrato no, ma devo raggiungerlo, devo guardarne i particolari e non restare a distanza. Troppo facile.

Da lontano posso controllare tutto. L’edificio malconcio sembra possa crollare da un momento all’altro, ma non accadrà, saranno il vento e il tempo a consumarlo.

Diletta, Raffaella, Amedeo, Giulio ed Efrem sono davanti a me, Ludovico è piazzato sotto l’edificio e si guarda intorno. Vuole scavalcare la seconda barriera ed entrare, lo intuisco da come si muove. Si guarda intorno, i militari sono lontani ma ci tengono d’occhio. Lui si abbassa e decide di fotografare dal basso verso l’alto e di non farsi arrestare. Sorrido.

Gli altri sono persi nei loro pensieri, nessuno guarda in basso, siamo tutti presi da quello squarcio e non ho voglia di dire niente. Perché quando il silenzio è troppo, e qui c’è un silenzio che potrebbe seppellirmi, devo sempre dire qualcosa.

Questa volta resto in silenzio e provo ad avanzare. Verso la base del palazzo, l’odore di bruciato aumenta. Incredibile, penso.

L’olfatto è il senso che ho sviluppato maggiormente, quello che uso di più per provare a sentire qualcosa risuonare dentro di me.

Infatti, è studiato dalla Rockefeller University di New York che ricordiamo il 35% di quanto odoriamo, il 5% di quanto vediamo, il 2% di quanto sentiamo e l’1% di quanto tocchiamo.

Quando respiriamo un odore che conosciamo, l’olfatto è connesso direttamente all’ippocampo e l’odore risveglia un ricordo sopito, procurandoci emozioni precise.

Siamo non a caso la somma delle nostre memorie sepolte e l’olfatto è come Caronte: ci traghetta giù.

Inspiro. Da oggi in poi, questo odore mi ricorderà Mykolaiv, questa piazza, questo edificio che si sgretola. Non più solo il nero della crosta della pizza o del pane che la mattina abbrustolisco troppo vicino al salmone. Ma non basta.

Cammino ancora e senza rendermene conto sono alla barriera finale, catene di metallo e reti due volte più alte di me, piazzate pochi metri prima dell’ingresso che ora, con i vetri esplosi a terra, mi sta davanti. Dentro, poggiata a terra, giace una bandiera ucraina con dei fiori.

Non mi resta che alzare la testa e vedere quel buco a forma di V. L’odore di bruciato non basta. L’olfatto lo uso per sfruttare i ricordi, per romanzarli e illudermi di aver vissuto. Sento un odore collegato a un’emozione e mi convinco di averla vissuta fino in fondo. Avrei fatto così, una volta a rientrato a Roma, se fossi rimasto a cinquanta metri da qui invece di arrivare al limite. Avrei legato l’impatto di questo luogo all’olfatto, a distanza, avrei costruito su quello le emozioni. Al sicuro, meno del solito forse, ma sempre al sicuro. Invece adesso devo alzare la testa e guardare il vuoto che segue l’esplosione.

– Andiamo, si stanno avvicinando i militari, è un po’ che siamo qui.

Diletta è subito dietro di me, mi dà una pacca sulla spalla.

– Un attimo solo. – Risponde Ludovico.

Non sento altre risposte.

La porta con i vetri frantumati è il fotogramma su cui i miei occhi sono puntati, inchiodati.

– Arrivo. – Bisbiglio.

– Che fai, anche questa volta replichi? Eviti di fare quel passo in più?

Una voce stridula, tagliente, di nessuno dei miei amici. La porta a vetri parla.

– Guarda su, vigliacco. E smettila di frignare.

Sbatto gli occhi, mi strofino la faccia. La porta è immobile, ferma, devo essere teso. Alzo gli occhi lentamente, il primo piano è intatto, pende qualche cavo, qualche vetro rotto, ma devo salire ancora con lo sguardo. Fra il primo e il secondo piano il grigio sfuma nel nero. Poi il vuoto. La prima porzione di nulla, salgo ancora e il vuoto si dipana nella V che vedevo da lontano. Pavimenti divelti, calcinacci in bilico, legni, poi travi spezzate. La V si allarga fino a sopra e dentro di me il respiro diventa un susseguirsi di bolle d’aria che mi premono sullo sterno, salgono su per il vuoto del mio torace.

Su in cima l’edificio dà verso il cielo, senza tetto, nuvole nere e gonfie sono immobili scurendo i contorni della V.

C’è un bambino sul lato sinistro della fine della V, sopra al tetto dove inizia la parte più ampia della voragine. Come, un bambino? Un bambino seduto in cima che guarda dritto davanti a sé.

L’odore di bruciato aumenta, metto una mano davanti alla bocca, mi guardo intorno. Sono rimasto solo, gli altri si stanno incamminando verso il van. Guardo il vuoto a forma di V che ora arde, i contorni sono incandescenti, faccio cenno al bambino di scendere, provo a scavalcare la rete ma è alta e le maglie troppo strette. La V è arroventata, di un rosso arancio simile al sole che tramonta. Il bambino sembra non avere paura, ha solo una mano sul naso per non respirare. Mi somiglia. È in alto, lontano, ma vedo i capelli neri, la carnagione chiara, non sembra ucraino, è vestito come me in una foto che mia madre ha a casa.

Le bolle d’aria ora si piazzano in gola, non esplodono e non escono dalla bocca, stanno ferme e occludono il passaggio. Tengo gli occhi sbarrati, non riesco a respirare. Il bambino sul tetto, sul bordo dove inizia la voragine, si alza in piedi.

Non guardare giù, penso. Ti prego, non guardare. Torna indietro, resta lì per sempre ma non guardare giù. O cadrai. Non guardare giù. Ma le bolle d’aria non permettono al fiato di uscire. Così il bambino non può sentirmi, nessuno può sentirmi. E lui, invece di tornare indietro, invece di rimanere fermo lì, guarda giù nel vuoto.

 

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Andrea Fassi

Pronipote del fondatore del Palazzo del Freddo, Andrea rappresenta la quinta generazione della famiglia Fassi. Si laurea in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali coltivando l’interesse per la scrittura. Prima di seguire la passione di famiglia, gira il mondo ricoprendo diversi ruoli nel settore della ristorazione ed entrando in contatto con culture lontane. Cresciuto con il gelato nel sangue, ama applicare le sue esperienze di viaggiatore alla produzione di gusti rari e sperimentali che propone durante showcooking e corsi al Palazzo del Freddo. Ritorna al passato dando spazio al valore dell’intuito invece dei rigidi schemi matematici in cui spesso oggi è racchiuso il mondo del gelato. Combina la passione per il laboratorio con il controllo di gestione: è l’unico responsabile del Palazzo del Freddo in qualità di Amministratore Delegato e segue la produzione dei locali esteri in franchising dell’azienda. In costante aggiornamento, ha conseguito il Master del Sole 24 Ore in Food and Beverage Management. La passione per la lettura e la scrittura lo porta alla fondazione della Scuola di scrittura Genius nel 2019 insieme a Paolo Restuccia, Lucia Pappalardo, Luigi Annibaldi e ad altri editor e scrittori. Premiato al concorso “Bukowsky” per il racconto “La macchina del giovane Saleri”, riceve il primo premio al concorso “Esquilino” per il racconto “Osso di Seppia” e due menzioni speciali nei rispettivi concorsi “Premio città di Latina” e “Concorso Mario Berrino”. Il suo racconto “Quando smette di piovere”, dedicato alla compagna, viene scelto tra i migliori racconti al concorso “Michelangelo Buonarroti”. Ogni martedì segue la sua rubrica per la scuola Genius in cui propone racconti brevi, pagine scelte sui sensi e aneddoti dietro le materie prime di tutto il mondo. Per la testata “Il cielo Sopra Esquilino” segue la rubrica “Esquisito” e ha collaborato con il sito web “La cucina italiana” scrivendo di gelato. Docente Genius di scrittura sensoriale, organizza con gli altri insegnanti “Il gusto per le storie”, cena evento di degustazione di gelato in cui le portate si ispirano a libri e film.

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