Nei capitoli precedenti:
- Capitolo 1 – Il sorpasso
- Capitolo 2 – Frontiere
- Capitolo 3 – In caso di morte
- Capitolo 4 – Terra di nessuno
- Capitolo 5 – Dentro
- Capitolo 6 – Bestialità
- Capitolo 7 – Droni
- Capitolo 8 – Sirene
- Capitolo 9 – Odessa
- Capitolo 10 – Bilanci
- Capitolo 11 – Mansplaining
- Capitolo 12 – Rete di sicurezza
- Capitolo 13 – Cibo da ridere, cibo da piangere
- Capitolo 14 – Maglie
- Capitolo 15 – Il Gambero Rotto
- Capitolo 16 – Suoni
- Capitolo 17 – Taxi
- Capitolo 18 – Fame
- Capitolo 19 – Congelare
- Capitolo 20 – Punto di vista
- Capitolo 21 – Colori
- Capitolo 22 – V
- Capitolo 23 – Ragni
Ventiquattresimo capitolo – Cani
I cani ucraini vivevano in case come le nostre. Adesso girano per Mykolaiv come fantasmi. Magri che si vedono le ossa. Superstiti tra le macerie, non comprendono altro che l’abbandono e la fame. Sento tirarmi i pantaloni poco sopra gli stivali.
Poi un morso alla caviglia. Tiro la gamba in avanti e vedo questo cane grigio come l’asfalto. Ha il collare rosa, pochi peli e mi fissa.
Ha una medaglietta con un nome in ucraino. Guardo gli altri del gruppo al di là della piazza, guardo il cane. Mi allontano per seguirli. Il cane mi segue.
– Vai via.
Il cane si ferma.
Io continuo a camminare. La pioggia rimbalza sul K-way che indosso.
Mi giro, il cane è immobile sotto l’acqua.
La pioggia aumenta, scende a secchiate. Mi tiro in testa il cappuccio e il cane non si muove. Mi guarda diritto negli occhi.
Lo uccido. Una sassata sulla testa. E puf. Il senso di colpa anestetizzerebbe quello che di me vedo riflesso nei suoi occhi: solitudine.
Bambini su macerie, vecchie megere, cani, morte, paura. Il senso di colpa congelerebbe tutto, ancora di più.
Sarebbe come rompere uno specchio.
Tu sei stato abbandonato perché sacrificabile, sei un peso che nei drammi non può essere previsto. C’erano cose più importanti di te, di un cagnetto di merda.
Il cane è immobile, mi avvicino. C’è una grossa pietra alla sua destra che non avevo visto.
Non ti piangerà nessuno. E io potrò sentirmi in colpa bruciando di dolore. Però sarei libero almeno per un po’ dal freddo. La tua solitudine schizzerebbe sull’asfalto, si scioglierebbe con queste secchiate d’acqua fino a diventare trasparente e perdersi in qualche fogna. La lascerei lavare via, non dovrei più sopportarla.
Facciamo che non lo dico a nessuno.
Mi giro. Ludovico e gli altri fotografano un posto di blocco sulla strada verso il van, ho poco tempo.
Il cane continua a fissarmi. La pioggia bagna me e la strada e il K-way pesa zuppo di acqua.
Non c’è nessuno, siamo io e questo cane.
Avevo letto su Internet che spesso gli animali, quando ci sono eventi sismici, guerre, inondazioni, vengono abbandonati. Per necessità, diceva la giornalista. Ti trovi nel mezzo di un bombardamento, prendi tua figlia, tua moglie e se non hai tempo perché il rischio è morire o veder morire loro, scappi. E gli animali diventano un impiccio.
Io non credo che riuscirei ad abbandonare i miei due gatti.
Prendo la pietra a terra. Pesa, questa pietra.
L’abbandono che elabori più velocemente è quello che diceva la giornalista nell’articolo. Hai la scusante. Lasci indietro perché non hai alternative e quindi ti auto assolvi.
Se lo prendo tra gli occhi, muore subito. Deve morire subito, lo strazio dell’agonia sarebbe troppo.
Poco sopra il centro degli occhi forse, quel punto in cui pure il cranio degli umani è più fragile, quello dove da bambini si ha la fontanella.
Non ho mai ucciso nessun essere vivente.
Tiro su il braccio.
Il cane dovrebbe ringhiare ora, ma si siede sulle zampe posteriori e mi continua a guardare.
– Lo sai che io sono come te? Chiudi gli occhi.
Ovviamente non chiude gli occhi.
– Chiudi gli occhi. Chiudili!
La pioggia copre la mia voce. Il sasso pesa, il braccio inizia a indolenzirsi.
Ora! E addio solitudine.
Chissà che rumore fa. Chissà cosa dimenticherò e cosa ricorderò. Il rumore della testa che si spacca, il colore del sangue che schizza o il muso deformato, la puzza di cane e sangue o il sapore della pioggia. Chissà a quale senso legherò il dolore.
La pietra oscilla, sento dalla spalla salire un bruciore, come se sfregassero sui muscoli decine di fiammiferi. Devo farlo ora. Inspiro.
È così che deve finire, perché io possa ricominciare.
Scaglio la pietra con tutta la forza che ho in corpo, d’istinto chiudo gli occhi e nel buio cieco vedo Amelia.
Più calzini arrotoli uno dentro l’altro, più la palla che ne viene fuori vola bene.
~ Sei un rimbambitone, papà!
Inoltre una bella palletta di calzini è un’arma senza eguali, così prendo la mira e lancio.
Amelia ride, dal letto salta tirando su le ginocchia. Io guardo che non si avvicini troppo al bordo mentre il suono del suo ridere vibra nelle mie orecchie.
~ Rimbambitone, non mi prenderai!
Su il braccio, stringo la massa morbida di calzini e carico la spalla.
Amelia grida, salta e ride. Sarà a tre metri di distanza.
~ Rimbambitoneee!
Lancio. Dritto, senza forza, ma abbastanza deciso da tirare dritto verso di lei.
La palla di calzini sorvola il pavimento, il comodino, i vestiti buttati a terra, alcune forme di didó e punta dritto al viso di Amelia.
La palla di calzini rimbalza sul naso di Amelia che non smette di ridere, poi rotola sul letto e a terra.
~ Presa! ~ E salto su con le braccia in aria.
Amelia alza gli occhi al cielo e, come le ho insegnato, inscena uno svenimento, alza gli occhi e si accascia, ma le viene da ridere.
Così si butta sul letto, salta giù e mi corre incontro.
~ Papà, sei troppo forte, sei il pirata più coraggioso di tutti i mari delle stelle del mondo, anche se sei rimbambitone.
Poi silenzio, deve anche aver smesso di piovere.
Apro gli occhi. Il cane è acquattato nello stesso posto di prima, mi fissa con gli occhi immobili. La pietra è accanto a lui, a circa un metro, aperta in due.
Mi siedo a terra.
Se piango adesso che piove, nessuno se ne accorge.
Sento il bagnato dei pantaloni a contatto con l’asfalto, il cane si avvicina. Ha il pelo ispido, lo sento sotto il palmo della mano mentre lo accarezzo.
Si infila tra le mie gambe, spinge la testa sotto al K-Way.
– Andrea! Dai andiamo, Andrea!! – Sento chiamarmi da lontano.
Mi giro, tutto il gruppo unito mi attende.
Penso ad Amelia, quante volte mi ha già salvato in questi tre anni e mezzo. Mi asciugo la faccia, mi alzo e il cane si struscia un po’ e poi trotterella via portando con sé tutta la solitudine di Mykolaiv e non solo.