Nei capitoli precedenti:
- Capitolo 1 – Il sorpasso
- Capitolo 2 – Frontiere
- Capitolo 3 – In caso di morte
- Capitolo 4 – Terra di nessuno
- Capitolo 5 – Dentro
- Capitolo 6 – Bestialità
- Capitolo 7 – Droni
- Capitolo 8 – Sirene
- Capitolo 9 – Odessa
- Capitolo 10 – Bilanci
- Capitolo 11 – Mansplaining
- Capitolo 12 – Rete di sicurezza
- Capitolo 13 – Cibo da ridere, cibo da piangere
- Capitolo 14 – Maglie
- Capitolo 15 – Il Gambero Rotto
- Capitolo 16 – Suoni
- Capitolo 17 – Taxi
- Capitolo 18 – Fame
- Capitolo 19 – Congelare
- Capitolo 20 – Punto di vista
- Capitolo 21 – Colori
- Capitolo 22 – V
Ventitreesimo capitolo – Ragni
Adelaide, 2010
Fisso lo scarico del cesso. Incredibile. Gira dalla parte opposta. Mi tiro su i pantaloni, il piccolo bagno di casa dei miei zii è bianco, pare il paradiso. Bianco ovunque, una finestrella che dà su un boschetto, ceramiche bianche e pulite, mattonelle bianche ancora più pulite. L’acqua ormai cristallina gira e svanisce. Devo comprarmi una tavola da surf. O forse prendere prima qualche lezione. O forse lezione no, non serve. Un po’ a Lavinio ho provato su qualche onda. No, non regge, devo fare delle lezioni.
Faccio per aprire la porta del bagno, bianca anche quella, la mano si raffredda sull’ottone cromato, bianco fresco e, forse attratti dalla discontinuità del bianco, i miei occhi vengono rapiti da un’ombra nera poco sopra di me. Grande poco meno di un pugno.
L’Australia deve al suo isolamento un posizionamento alto tra i paesi con la presenza di animali pericolosi. L’enorme isola ha ricevuto nei secoli una limitata colonizzazione e questo mantiene specie di ogni genere, dannose per l’uomo, gli australiani ci convivono. Insomma, il paese “occidentalizzato” con più alto tasso di ragni, serpenti, insetti velenosi del mondo.
Non credo i ragni saltino, ma so che è il movimento imprevedibile, oltre la forma, a spaventare.
Il fuso orario ancora mi rintontisce, devo rientrare in salotto perché è un crocevia di parenti che vuole conoscermi e salutarmi. L’ombra nera si muove in giù, non so quante zampe abbia, so che con quegli stecchetti che si muovono supera la grandezza di un mio pugno.
Tengo la mano sulla maniglia, immobile, mentre il nero scende io non riesco a muovermi. Ticchetta le zampe in maniera meccanica, quelle avanti e insieme quelle dietro, credo abbia del pelo sul dorso e degli occhietti ma non riesco a guardarlo senza sentire che potrebbe saltarmi addosso in un istante.
Ma i ragni non saltano, credo.
Sulla schiena, dal collo, sento pizzicarmi come se decine di ragni stessero facendo lo stesso suo percorso sulla mia pelle, la sensazione mi fa sobbalzare e mollo la presa della maniglia.
Il divano dei miei zii, devo raggiungerlo. Mica posso strillare. Alla fine sì, potrei chiamare con gentilezza e fingere disinvoltura nel chiedere aiuto. Ma sarà velenoso? Mi riderebbero in faccia prendendolo con le mani e lanciandolo nel boschetto. Resto di nuovo immobile. Il ragno corre, supera la maniglia e scende verso il pavimento.
Vorrei gridare un acuto, bello chiaro, in questa piccola villa a Adelaide nel sud dell’Australia, una ridente cittadina sul mare, in cui morirò per il morso di un ragno. Che ci sono venuto a fare? Avrei festeggiato qui i miei ventitré anni, volevo andare via da Roma, non so il motivo preciso, ma non potevo di certo continuare a vivere come facevo lì.
Eppure, ora che sto per morire, perché di certo mi morderà e io morirò paralizzato con la schiuma alla bocca, penso che non so realmente il motivo di questa fuga qui, dalla parte opposta del mondo. Cosa mi manca di Roma?
Il ragno arriva sul pavimento, si ferma. Io sono fermo.
Mio nonno materno era calabrese. Quindi gli ossequi sono imprescindibili e prima di arrivare qui in bagno, una dozzina di zii e zie è passata a salutarmi. Proprio adesso che sarebbe dovuta passare mia cugina, cugina di terzo grado credo, almeno così mi hanno detto gli zii.
Comunque mio nonno fu l’unico fratello trasferitosi a Roma dalla Calabria, mentre gli altri, negli anni cinquanta, cercarono la fortuna trovandola in Australia. Così sono atterrato con l’idea, seppur non chiara, di restare qui e ritagliarmi un angolo di fortuna pure io. Credo che il ragno mi stia guardando, lo sento camminarmi nello stomaco e nello sterno.
Avanza, io indietreggio. Si muove a destra, poi a sinistra e poi parte verso i miei piedi.
Mio nonno era un sarto, un uomo d’altri tempi, io credo a oggi di non averne ereditato neanche un’ombra, purtroppo sento solo il gene deviato Fassi. Deviato nel senso di viziato, intendo. Arrabbiato, infelice. Ma cazzo ho ventitré anni quasi, sto in Australia da solo e proprio adesso devo morire? Ora che ho trovato forse una strada utile per sentire qualcosa?
Ecco, la morte ora forse mi dispiacerebbe, un po’.
Il ragno vira a pochi centimetri dalla mia scarpa, io lo seguo con gli occhi, lui sale veloce sulle mattonelle del muro dietro la tazza. Non salta. Non saltano, i ragni.
Se avessi conosciuto meglio mio nonno materno, forse, sarei qui con un altro spirito. Il ragno raggiunge la finestrella e svanisce, con lui i morsi nello stomaco, i brividi sulla schiena e i pensieri.
Sparito. Apro la porta e mi fiondo in salotto.
Pensandoci, la dedizione al lavoro di mio nonno materno, Domenico chiamato Mimì, come tutti i Domenico calabresi della terra; pensando alla sua morale, alla sua etica, avrei voluto ereditarne di più. Qui tutti lo stimano, da lontano ha aiutato nipoti e cugini e ricordo ancora la sua compostezza nel parlare. Ma è morto che ero un ragazzino di quattordici anni e ora a ventitré non capisco granché di uomini adulti.
In salotto ancora qualche zio chiacchiera in inglese infilando dentro parole calabresi che non capisco tipo “Zimpangulo”. Poi il campanello suona. Mia zia Lisa va ad aprire ed entrano.
Santo cielo, penso. Pensa se fossi morto per il morso di un ragno cosa mi sarei perso. Mi sistemo i ricci e mi strofino il viso.
– Lei è Melissa, Andrea. Con le sue tre amiche, Christine, Nadine e Rachel.
Dio sia lodato. Io sapevo di dover essere qui ora, via mio nonno via il ragno via il vuoto dei dubbi via l’eredità, eccomi qui. Ecco avvicinarsi come l’astronave di Indipendence Day, quella certezza matematica di desiderio risolutivo.
Chiudo gli occhi e sono sulla punta di un’onda su una tavola, salgo stringendo prima Melissa, poi Christine poi Nadine poi Rachel e poi cadiamo in acqua e mi baciano e mi stringono.
Dio, so di averti deluso, so di non credere in te e che la fede non è il mio forte, ma mi sento di ringraziarti qualora tu dovessi esistere nelle menti di quei poveri stolti che hanno bisogno di te. Ecco, Dio serve in questi momenti e nei momenti di merda per ringraziarlo o supplicarlo, un Padre inesistente che non può deluderti. Quasi lo dico ad alta voce.
Poi però è un istante. Le stringo la mano. Le altre tre svaniscono. Dio, quindi c’è speranza che io senta qualcosa. Melissa mi sorride, ha una canottiera bianca da cui l’abbronzatura sfuma nel pallido della curva del seno, un vestito corto e delle sneakers, gli occhi enormi grigi, i capelli castani e le labbra color vino rosso.
Ti amo. Sì, ti amo. Ora ascoltami, mi porterei a letto anche le tre qui al tuo seguito e va bene così non è detto non accada, ma voglio evitarlo per questo sentimento immediato, questa fiamma necessaria che si accende e si spegne come se un bambino di tre anni albergasse dentro di me e spingesse l’interruttore. Ma questa volta, questa volta, Melissa, sei tu. Andiamocene via ora.
Tutto questo glielo dico con gli occhi, lei lo capisce perché regge il mio sguardo e la sento rispondermi:
– Io voglio fare l’amore con te.
È una roba di pochi secondi, poi le altre cinguettano e si presentano. Due bionde con seno sopra la media, vita stretta e scarpe basse e una moretta magra con gli occhi azzurri e i denti bianchissimi, seno piatto e gambe muscolose. Quasi un peccato essermi innamorato. Mi sorridono.
– Ragazze, trattatelo bene che è stanco.
Mio zio Pasquale rimbrotta il chiacchiericcio delle ragazze. Guardo la moglie, mia zia Lisa, le mani ruvide, il volto disegnato da rughe profonde, gli occhi comprensivi, capaci di capire il bene e di non poter cogliere il male, come se fossero ciechi solo in parte.
Melissa mi chiede se ho voglia di fare un giro con loro.
– Beh forse è meglio se riposi, no? – Lo zio Pasquale interviene.
– No no, ce la faccio, mi sgranchisco un po’ le gambe.
Mi sgranchisco un po’ le gambe?! Ma come parlo?
– Ah, ma non eri stanchissimo?
– Sì ma non penso riuscirei a dormire, il jet lag.
– Beh, il fuso orario è impegnativo dall’Italia, avrai tempo per girare un po’.
Aspetta, io sono venuto qui per essere libero. Ho ventitré anni e mi sono attraversato la terra da solo. Però sono suo ospite, cazzo.
– Dai, domani un bel giro non te lo leva nessuno.
– Pasquale, davvero, sto ok.
– We are gonna bring him home soon, I promise. – Christine interviene.
Dio mio, le muse che vogliono liberarmi. Venite qui abbracciatemi e spogliatevi. Donatevi a me.
– Lo riportiamo presto, giuro. – Melissa insiste, parla un buon italiano.
Pasquale ha il volto duro, autoritario. Lo vidi una sola volta in Italia e ha il piglio di chi è abituato a comandare. Però ora sorride. Penso che, alla fine, pure a lui un tempo sia piaciuta l’idea di rimorchiare, è un bell’uomo.
– Hai fatto colpo, eh.
Le ragazze saltellano ridacchiando.
Ho trovato il paradiso.
In quel momento la porta si apre.
– Ross! – Grida Lisa.
Ross è uno dei figli di Lisa e Pasquale, ha una moglie, Mia e una figlia, Eva.
Mia è una ragazza quindici anni più giovane di Ross. Quando mi vede abbassa i grossi occhiali neri, io vedo due occhi verdi che brillano dentro un viso contornato da miliardi di capelli biondi, chiari e spessi come spaghetti. Mio Dio. Ma non mi fregherai, Demonio. Quante me ne stai mandando? Tu vuoi distrarmi dall’amore. Guardo Melissa, poi Ross.
Mi presento, Ross è più alto di me, l’aria giovanile ritagliata su un volto appuntito con poca barba e capelli neri con del bianco. La figlioletta Eva ride e corre dai nonni. La mano di Mia è fresca e mi lascia un profumo di pesca e vaniglia troppo dolce.
– Andrea, – Mio zio Pasquale mi prende il braccio, – Qui ceniamo presto, perché non resti a cena e vi vedete con Melissa e le amiche domani a colazione magari? Sono certo che a Ross farebbe piacere stare un po’ con te. Poi lui riparte.
Sento i ragni ricominciare a camminare in fila sulla mia schiena, questa volta li immagino rossi, muoversi prima ordinati e poi come impazziti di rabbia ricoprire tutto il mio corpo fino a farmi diventare livido.
– Ma…
– Pà, c’ha quattro ragazze pà, su, non gli farei mai un torto simile.
Svanisce tutto di nuovo. Ragni, zampette, rabbia.
Trovato il primo fratello. Lo guardo dritto negli occhi, sei un cazzo di genio, amico mio. Cugino è dir poco, sei mio fratello, ti risparmio la moglie. Lui mi sorride.
– Lascialo andare, su, mica puoi fare come con noi che ci hai massacrato.
E scoppia in una risata.
– Bah.
Lo zio Pasquale incassa, ma non bene, si vede un velo di frustrazione.
Melissa mi prende per mano, io vorrei tirarla a me e baciarla ma sono ancora fuori tempo, è troppo presto.
– Se non sei stanco, ti va una birra sulla spiaggia?
Come glielo dico che io non bevo?
– Sì certo, ci sta.
– Ci sta?
– Sì nel senso che si può fare.
Ride e io rido. Salutiamo e usciamo e guida lei, io mi siedo accanto e le due amiche dietro, guida a destra e mi fa strano si guidi a destra.
È il tramonto, Adelaide è divisa in maniera geometrica in pianura, tra vie perpendicolari e parallele è un susseguirsi di case basse, il rosa del sole si dirama aggrovigliato alle nuvole come le zampe di un enorme, innocuo, ragno.