Nei capitoli precedenti:
- Capitolo 1 – Il sorpasso
- Capitolo 2 – Frontiere
- Capitolo 3 – In caso di morte
- Capitolo 4 – Terra di nessuno
- Capitolo 5 – Dentro
- Capitolo 6 – Bestialità
- Capitolo 7 – Droni
- Capitolo 8 – Sirene
- Capitolo 9 – Odessa
- Capitolo 10 – Bilanci
- Capitolo 11 – Mansplaining
- Capitolo 12 – Rete di sicurezza
- Capitolo 13 – Cibo da ridere, cibo da piangere
- Capitolo 14 – Maglie
- Capitolo 15 – Il Gambero Rotto
- Capitolo 16 – Suoni
Diciassettesimo capitolo – Taxi
2018
Entri in un qualsiasi taxi e vieni catapultato in una foresta insaponata di pino silvestre. Ogni volta ti fa prudere il naso. Poi, dopo un po’, ti abitui. Se invece il percorso è breve, l’odore artificiale ti resta appiccicato dentro le narici.
Tiro fuori il bancomat dalla tasca dei pantaloni.
– ’Sti stronzi.
– Scusa?
– ’Sti stronzi, dico. Ste cazzo de banche. Tutto se magnano.
Mi viene l’istinto di tirare dentro il bancomat.
– Ehm, non ho contanti.
– Pe’ sette euro il bancomat? Me rovini. Lo sai a percentuale quant’è, sì?
Sì, lo so, la percentuale è irrisoria.
– No, quanto?
– ’N botto. Mejo che non te lo dico.
Il tipo, con un braccio tatuato per metà con un maori sbiadito, china la testa per guardare dal finestrino. Io allungo di nuovo la mano con il bancomat.
– Ammazza, Fassi. Il Palazzo del Ghiaccio.
Del Freddo, del Freddo. Del Freddo.
– Ce venivo co mamma e nonna. Dopo che nonno è morto non semo più venuti. Tutte le domeniche, pe anni.
Sorrido.
– Piavamo il tranvetto sulla Prenestina, quello che mo sta gonfio de immigrati. Lo spiavamo tutte le domeniche. Che ricordi, Fassi. Nonna e mamma piavano la Caterinetta.
Sorrido di nuovo.
– Se stamo a venne tutto, – continua, – Fassi era n’istituzione, ’n pezzo de Roma, o sai che mo è cinese? È come er Colosseo se se lo compra n’arabo.
– Cinese? – Dico.
– Eh sì. Guarda ’sto quartiere, è tutto in mano ai cinesi. E pure Fassi. I sordi piacciono a tutti eh, il nipote se deve esse rotto il cazzo e ciao ciao Palazzo del Ghiaccio.
Sospira con un lungo respiro che diventa un rantolo.
– Ma hai detto che non ci sei più andato dopo che è morto tuo nonno?
– Se sa, dai. Da mo che il gelato non è più lo stesso, da quando ce stanno i cinesi.
Mi gratto il naso. Gli metto una mano sulla spalla. Non se lo aspetta, si gira di scatto e tira i muscoli delle spalle incurvandosi di qualche centimetro.
– Posso pagare, per favore? Mi aspettano. – Lo guardo, la pelle del viso è olivastra e unta.
– Contanti proprio nun ce l’hai?
– No, mi dispiace.
Allungo tutto il braccio e gli faccio penzolare il bancomat all’altezza del POS spento, lasciato subito dietro al cambio.
– Aspè. Lo devo accenne.
Passa qualche secondo. Il bip del POS conferma l’accensione, altri secondi per il segnale e poi è pronto.
– Perché non ti prendi un gelato?
Perché gliel’ho detto? Perché non riesco a fregarmene?
– Dai cinesi? No no.
Pago, il POS emette un altro bip. Mi arriva un messaggio sul telefono della transazione. Lui resta in silenzio. Guarda fuori.
– Certo, entracce me piacerebbe. Sarebbe un ricordo bello grosso.
– Ah sì?
– Sì, gelato o no ero ragazzino. Ero contento.
Mi lascia la ricevuta e guarda di nuovo fuori dal finestrino.
– Sai che te dico? Me lo pio. Namo.
Scende guardando dallo specchietto retrovisore se arriva qualcuno, apre la portiera e si aggiusta il cavallo dei pantaloni.
Lascia il taxi in doppia fila con il muso quasi a spina, la parte posteriore arriva fino ai cordoli bassi di plastica.
Mentre scendo, mi torna in mente la questione sui cordoli. Gran parte degli abitanti della strada dà la responsabilità alla gelateria per la doppia fila, odiandoci. Siamo finiti pure su quel blog, “Roma fa schifo”, quella meteora pseudo giornalistica solo in quest’epoca può funzionare.
Obiettano da sempre che “Fassi” non faccia nulla per evitarlo e non voglia cordoli di cemento perché leverebbero del tutto la doppia fila, spingendo i romani a desistere dal prendere un gelato al volo.
Ricordo ancora lo sguardo carico di disprezzo durante un incontro al comune per parlare del problema. Una tipa, forse una consigliera, non ricordo, sedeva su questa sedia accanto al vice responsabile ai trasporti di allora, tale Enrico, altra meteora come tutti gli altri politici dell’era 5 Stelle.
Sedevano gonfi come otri freschi della vittoria, incapaci di accorgersi di essere già forati da ogni parte, che quella spocchia indignata non sarebbe bastata a tappare tutti i piccoli forellini che bucherellavano le loro intenzioni. Li vedo bene, i personaggi finiti prima ancora di iniziare.
Vedo da quei fori uscire l’anima, sgonfiarli come palloncini. Altroché, incapaci di creare se ne stavano lì a credere in progetti inapplicabili e a odiare chiunque fosse un ostacolo, solo per potersi indignare.
I cordoli non li hanno mai cambiati, le mie proposte di ciclabile, di rinnovo, nulla, mai ascoltate, nulla cambia da quella riunione. Ho imparato a non curarmene, a non combattere per convincere che le mie intenzioni siano sempre giuste e limpide, mi gratto la testa mentre guardo il tassista sganciare il taxi come fosse una bici. Sospiro e sottovoce mi ricordo:
– Andrea, sii onesto. Non te ne frega una cazzo alla fine, ti urta di più il tipo che abita qualche finestra dopo il Palazzo del Freddo e fa video che invia indignato a “Roma fa schifo”, ti urta più del tassista o qualsiasi romano che dopo dieci minuti di clacson sparato da qualcuno incastrato nel parcheggio esce e dice:
– Eccome, eccome, arivo, ’a sposto subito.
Ecco, l’indignazione è l’emozione peggiore che esista, forse perché è un’emozione mediocre che riflette la propria miseria.
Entriamo insieme dall’ultima porta. La gelateria è piena, io mi guardo intorno. Ho l’interprete coreana che mi aspetta.
– Madò, quanti ricordi.
– Eh, immagino.
Davanti al bancone, l’uomo si perde quasi tornasse indietro nel tempo. Ha il volto luminoso, la pelle ha ora levigature rosate sulle guance, lo sguardo è attento e il corpo teso verso il gelato. Lo immagino come fosse una molla pronta a scattare nel passato.
– Posso pià crema e nocciola? Mi nonno la piava sempre.
– Certo.
– Vado a pagà.
– No no, ci penso io. Mi fa piacere.
Non mi fa piacere, ma voglio pagare io, voglio se lo ricordi bene la prossima volta.
– Ma no, te pare? Che ce stai a provà? – Ride.
In quel momento, dietro di me, una voce lieve ci interrompe.
– Signor Fassi, sono Giuseppina, l’interprete.
– Signor Fassi? Nun me dì.
Mi giro, Giuseppina Kim è la mia interprete italo-coreana dall’inizio dell’avventura dopo la vendita all’Haitai. Senza risponderle subito, l’abbraccio d’istinto. Lei resta ferma, rigida, se non per le mani che mi sfiorano la schiena a malapena. So che si sta affezionando a me.
– Giuseppina, è sempre bello vederti.
– Anche per me, Andrea.
Giuseppina l’ho trovata per caso, qualche anno fa. Ha fatto da interprete simultanea a Papa Ratzinger e al presidente Napolitano, mi fa tanto ridere il fatto che traduca anche me. La racconto sempre, questa cosa, o quasi sempre. Modulo la voce per fingere di non dargli peso, quando vedo brillare gli occhi dell’interlocutrice, perché di donne si tratta, il tono torna normale e continuo a parlare del più e del meno avendo catturato una nuova attenzione.
– Ma sei Fassi?
Il tassista. L’ho scordato in piedi ad aspettare.
– Sì, – gli porgo la mano, – Andrea Fassi, piacere.
– Madò, che figura de merda.
Eh sì, coglione.
– Può succedere, magari la prossima volta assaggialo e poi valuta, perché così si prendono belle toppe.
– Te posso chiede na cortesia? Mi madre non capisce più un cazzo, se ricorda solo de cinquant’anni fa, je posso portà n’autografo tuo?
– Un autografo mi sembra eccessivo, dai.
Me lo chiedono solo i gruppi filippini. Cioè, i turisti di un tour operator di Manila in visita al laboratorio per assistere a come si produce il gelato. I partecipanti poi, alla fine, se ci sono io ad accompagnarli, battono le mani gridando all’unisono:
– Ohhh, ohhhh.
Poi mi chiedono l’autografo.
– Pe mi madre.
– Ma non siamo cinesi?
L’uomo mi guarda, poi guarda Giuseppina. So per certo che il tassista non distinguerebbe neanche la bandiera cinese da quella coreana. Ma poi, cosa importa?
– Andrea, – Giuseppina unisce le mani sul tailleur scuro, – Stanno arrivando da Fiumicino, l’aereo da Seoul è ormai atterrato da più di quaranta minuti. Aspettiamoli fuori. Sarebbe un gesto carino.
Nel trambusto del taxi e del gelato cinese, mi sono scordato che dalla Corea arriva il team per il consiglio di amministrazione con me. Sento un brivido, un effluvio di rabbia misto a noia, forse anche a un po’ di paura. Perché devo fare capo a loro?
– C’ho pure la penna. – L’uomo, non curante dell’interprete, insiste.
Prendo la penna dalle sue mani, sfilo un fazzoletto dal contenitore sul bancone.
– A Mikaela.
– Ok, aspetta.
La penna scorre sulla carta. Che bella, la sensazione di scrivere.
– A Michael..
– No no no!
Stacco la penna dal tovagliolo,
– Mikaela, co la k, non con la ch.
Giuseppina mi stringe il braccio dolcemente, esortandomi ad andare.
Sorrido, dico a uno dei ragazzi al banco di fare un gelato al tipo e dopo avergli dato il fazzoletto mi allontano con l’interprete.
– Vai vai vai, scusa. – Dice il tassista, con le dita mi fa cenno di contare i soldi e se la ride.
Viene da ridere anche a me. Se solo sapesse quanto lontana sia la verità da ciò che vede.
Fuori pioviccica, Giuseppina resta sotto l’ingresso della gelateria, io mi metto in strada.
Dopo qualche secondo, un grosso van nero si ferma dietro il taxi. Giuseppina mi guarda, io guardo lei, devono essere loro. La portiera si apre, due uomini in camicia seguiti da una donna scendono mentre l’autista scarica delle valigie. Un ciclista per poco non si scontra con il van e manda a fare in culo l’autista, che risponde con il dito medio. Vedo Giuseppina non curarsene e alzare un fazzoletto per catturare l’attenzione della donna.
– Benvenuti in Italia.