Nei capitoli precedenti:
- Capitolo 1 – Il sorpasso
- Capitolo 2 – Frontiere
- Capitolo 3 – In caso di morte
- Capitolo 4 – Terra di nessuno
- Capitolo 5 – Dentro
- Capitolo 6 – Bestialità
- Capitolo 7 – Droni
- Capitolo 8 – Sirene
- Capitolo 9 – Odessa
- Capitolo 10 – Bilanci
- Capitolo 11 – Mansplaining
- Capitolo 12 – Rete di sicurezza
- Capitolo 13 – Cibo da ridere, cibo da piangere
- Capitolo 14 – Maglie
Quindicesimo capitolo – Il Gambero Rotto
Io non mangio gelato. Non mangio gelato perché lo amo. Ne amo la freddezza sul palato, il brivido sui denti, le forme morbide, il filo diretto con il passato, il collocarsi al di fuori del resto del panorama culinario, – per quanto qualche povero gelatiere egoriferito tenti di sperimentarsi credendosi chef, – amo i colori sgargianti che la natura offre mentre si impastano per far sorridere i bambini, amo visceralmente la consistenza soffice e liscia, il ricordo che si scioglie in gola e ti toglie il respiro.
L’amore disturba, l’amore devi tenerlo fuori, altroché. Se ami devi tenere a distanza, sennò distruggi tutto. Mangiarlo mi crea un’angoscia precisa. Mi aumenta il battito cardiaco, sudo, abbasso il tono di voce e mi gratto la testa.
È che siamo ciò che mangiamo, quindi mangiare gelato nutre quel pezzo di me che non accetto. Inghiottendolo insomma ammetto sia parte di me.
A distanza no, a distanza, come i più grandi amori sfumati, tutto è gestibile. Piloti e guardi dritto, oltre.
Torno al mio posto, le prime persone vanno via dal ristorante. Forte la giornalista, ancora è in bagno. Domani mattina riceverò un premio e non vorrei fare troppo tardi. Ultimamente ne ho ricevuti un bel po’. Premi sinceri, semplici, più per il mio operato che per il gelato, per l’impegno, per la trasparenza, per la storia.
Torno al tavolo, lei non si vede.
– Ma te sei Fassi?
Mi giro, il ristorante inizia ad avere tavoli vuoti, guardo l’ora, è tardi. Un signore mi si avvicina.
– Sei Andrea Fassi?
– Sì, perché?
– Io ti seguo, vengo sempre a mangiare il gelato da voi. Siete bravissimi.
– Ti ringrazio.
– Poi voi lì al Palazzo del Ghiaccio, – del Freddo, Palazzo del Freddo, del Freddo porca troia, – avete così tanto spazio, ci venivo da bambino con i nonni. Non mollare, eh! E poi ti seguo su Facebook. Ho letto quella cosa che hai scritto, quella in cui racconti del clochard all’Esquilino, leggo sempre le cose che scrivi, poi che bella la tua fidanzata.
In quel momento al tavolo torna la giornalista, Chiara. Il signore la guarda, mi guarda. Penso, ma te pare che delle quattro persone che ho su Facebook questo proprio qua adesso doveva stare? Neanche ho Instagram.
Lui la guarda, poi guarda me, muove appena la testa all’indietro, giurerei di aver visto un movimento della bocca, verso un sorriso strozzato. Tipo, “bona pure questa”.
– Allora buon proseguimento. – Dice tossendo.
– A lei e grazie.
Sospiro. E vabbè, a chi può dirlo che sono qui?
– Chi era?
– Un fan del gelato. – Lo dico ridendo.
– Addirittura? Pure i fan, vabbè non sono gelosa.
Aspetta. Gelosa. Come ti viene in mente? E perché?
– Domani devo alzarmi presto, devo essere a Rimini per la fiera del gelato.
– Ah, ok. Vuoi andare?
– Tra poco sì. – Ha i capelli disordinati e il sorriso che le illumina le labbra rosa si affievolisce.
– Non volermene, – aggiungo, – Non era previsto questo, ecco, come chiamarlo…
– Incontro? Scontro? Scopata?
– Scusa? – Schietta, penso.
– Dai su, scherzo. Me lo offri un gelato?
Se c’è una regola matematica, geometrica, chiara, è che il gelato lo offro solo al primo incontro e non lo mangio. E noi siamo già ben oltre. È una leva che non uso se non quando conosco appena. Mi tolgo subito il problema, così ti ho offerto il gelato e uno dei motivi per cui ti sei avvicinata a me ce lo siamo tolto dalle palle.
– Abbiamo mangiato un sacco, no?
– Che c’è, non vuoi che ti vedano con me?
Ma certo. Ma è ovvio. E poi pure l’intimità con il collante gelato, in casa, neanche se fossi single.
– No, figurati, certo non sarebbe il massimo, potremmo fare più avanti.
Il tono di voce scende.
– Ma che vai a fare a Rimini? – Mi chiede.
– Devo ritirare un premio, una roba per la storia, è un giornale di settore a darmelo.
– Gambero Rosso?
La guardo e rido.
– Chi? Gambero Rotto?
Lei mi guarda, storce tutto il viso tra non capire e fastidio.
– No, no, non è il Gambero Rosso. Ringraziando il cielo.
– Non ho capito. Il Gambero Rosso è il top. Spero un giorno di scrivere per loro.
Le guardo i lineamenti precisi, la pelle rosata.
– Ritiro il premio per cortesia, è un giornale piccolo e di settore, parla di storia delle aziende e sono felice. Io aborro il Gambero Rosso.
– Aborri il Gambero Rosso? Perché non ti danno i coni?
– I che?
– I coni
– E che sono? – La guardo e lei intuisce io non lo sappia davvero.
– I coni, da uno a tre, sono le valutazioni che gli esperti danno alle gelaterie.
– Ah.
– Ma dove vivi, Andrea?
Beh, non sai dove vivo però dieci minuti fa stavi dentro al bagno con le mani sul muro.
– Se ti dico dritto e chiaro cosa penso delle riviste di settore e sui blog di cibo mi prometti di tenertelo per te?
– Ricordati che io scrivo di cibo.
– Sì, ma ti piaccio, quindi io e te siamo andati oltre il lavoro, e poi sei molto carina, sarò clemente con te.
– Molto carina. – Ripete.
Non è abituata, molto carina è poco. La incenseranno tipo principessa.
– Molto carina, eh? – Ripete di nuovo.
– Beh, sì, mica è un’offesa.
– Insomma. Il pensiero del rampollo del gelato annoiato, tipo “povero me ho ereditato tutta ’sta roba e sono arrabbiato” e “sono a cena con una giornalista ‘molto carina’ ma sono fidanzato, povero me”. Boh, perdi punti.
– Dici che sono tipo la Paris Hilton del gelato?
Ride. Le va via quella smorfia di disappunto e ride. È proprio bella, ma oltre questa sera non andremo.
– Penso che mi fanno cagare. – La guardo negli occhi.
– Scusami?
– Io penso che mi fanno cagare, Gambero Rosso, blog di ogni tipo. Se parli di cibo ti salvo solo se sento qualcosa dentro di te, sennò per me sei miserabile.
– Non sei molto rispettoso, Andrea. Ma chi ti credi di essere? È gente che lavora, che conosce il cibo, che si appassiona e ama e vuole valorizzare le eccellenze. Siamo, – sul “siamo” spinge sul tono, – Siamo professionisti.
– Ama? Ama cosa?
– Io amo il cibo Andrea, amo parlarne. La fai facile, tu. Che hai dovuto fare per stare qua a pontificare?
La guardo negli occhi. Scommetterei che ha ancora voglia e sa che dopo questa sera non mi vedrà più. Se esagero potrebbe sputtanarmi, però. Vabbè che della mia storia resta proprio poco.
– Vuoi davvero parlare di me?
– Beh, sputi sul lavoro che faccio.
– Io condanno le intenzioni.
– Intenzioni?
– Ma ti rendi conto? Esiste un mondo, una cerchia di eletti che se la suonano e se la cantano rimbalzandosi complimenti, vendendosi pubblicità, relegando il cibo a un esercizio di stile fruibile da pochi che si fanno le seghe su ’sta roba. Al loro vuoto corrisponde l’ego de ’sta gente.
Resta qualche istante in silenzio. È ancora all’inizio, o comunque non ha esperienza sufficiente per reggere. Non che io ne abbia chissà quanta più di lei. Si tocca i capelli.
– Se non fosse per le riviste di settore, per cuochi pasticceri e gelatieri da tutelare, saremmo piegati a Mc Donald’s e al cibo di basso livello. – Ha i pugni chiusi mentre parla.
Ma vaffanculo, va.
– Ma che dici. Ma è una stronzata, scusami. Anzi, è pietoso dire una roba simile. Pietoso.
– Disintegri il lavoro di migliaia di persone che restano invisibili, cedi potere a riviste e a “esperti”, – acuisco il tono su esperti, – che decidono delle sorti delle nuove aperture, delle nuove leve; tutto diventa un esercizio di stile per piacere, per piacersi, per essere visti. Mi fa rosicare ’sta roba.
Forse esagero, ma alla fine le piaccio, quindi arretrerà.
– Parli facile. Te lo ripeto, ti chiami Fassi, hai la gelateria di papà e nonno e bisnonno più famosa d’Italia.
’Sta stronza, come sta qua però, eh.
– E ti permetti di parlare del lavoro mio e di chi ama il cibo come fossimo quattro stronzi. Mi sa che lo stronzo sei tu.
Su questo, penso, non c’è dubbio. Incazzata mi viene voglia di riportarla in bagno.
– Ancora con l’amore. Ami il cibo, amate, vi appassionate. Ma chi siete? Cosa volete dal cibo? E gli altri quattro stronzi che si mettono a pecora per mezzo articolo cosa se ne fanno davvero del cibo? Vedi, io amo il gelato. Lo amo così tanto che non lo mangio. Che non lo tocco, che lo accarezzo e non ne esprimo giudizi. Lo amo da stare male che me lo tengo dentro una parte di me segreta, nascosta, dove non posso sciuparlo, non posso togliergli il valore intrinseco che ha, parlandone e riempiendomene la bocca lo svilirei. L’amore, occhi belli, è infilarsi un coltello nel fegato e trovarci il gelato, produrlo per renderlo di tutti, tutti, avercelo dentro è amarlo e tirarlo fuori non deve avere opinioni o giudizi, deve sciogliersi tra la gente comune. Vedi, occhi belli, non metterlo in competizione è amarlo, non scegliere di mostrarlo come un trofeo, come un esercizio egoriferito, rifiutarne il piacere estetico significa amarlo, non creare gerarchie è amarlo, se giudichi non ami. Vedi, è il mio modo di vedere le cose. Se esisti tu è perché ci sono io, se esistono i coni o come si chiamano i gamberetti e company è perché esistono gelatieri, pasticceri, cuochi. Il punto è che ora quelli come te pretendono di far esistere quelli come noi. Quindi, mi fanno cagare. Tutti. E se ho usato una maschera di formalità, incappando in alcuni di loro in questi miei primi anni, occhi belli, è perché sono ancora inesperto. Ma dentro di me ribolle questo. Disprezzo. E ti dirò una cosa retorica, banale, in cui però credo. Mentre tu stai qui con me in questo ristorante per fighetti e scriverai il tuo articoletto sulla prossima gelateria che ti commissionano per parlare di cioccolato bianco spruzzato d’oro con liquirizia e lamponi della valle Cimina, mezzo mondo muore de fame e il premio che ritiro domani non è per la miglior cioccolata fondente al pepe bianco, ma è un riconoscimento per ciò che spendo per aiutare le persone dal mio “trono ereditato”, come dici tu. Il vuoto che vi accomuna è assordante, io il mio lo riempio restituendo valore senza appropriarmene. – Respiro.
Resto in silenzio, il ristorante intorno continua a svuotarsi, sul nostro tavolo restano solo i bicchieri di vino e l’acqua e sento di aver esagerato.
Lei si tocca di nuovo i capelli, mi guarda:
– Andiamo?
– Andiamo.
Con un cenno al primo cameriere che incrocio chiedo il conto. Lei tira fuori il portafogli. Io ho il bancomat in mano.
– Ci penso io.
– Non provarci. Ognuno paga il suo.
– Mi fa piacere.
Suona falso. Suona finto, lei deve pagare per lei, io devo pagare per me, ha ragione. Pagare significherebbe esercitare potere e, dopo la serata tra bagno e insulti, sarei squallido. Dividere è poco elegante però, il desiderio di fare bella figura, distorto muove i miei occhi ovunque lontano dai suoi.
– Davvero, ci penso io. È il minimo.
Mi guarda in modo diverso, come se l’ultimo quarto d’ora avesse segnato un solco profondo tra di noi, ci pesco pure del rammarico negli occhi. Per aver fatto quello che ha deciso di fare. Pentimento no, rammarico, sì, una nota di rammarico mista al piacere.
– Il “minimo”? E perché?– Mi guarda un istante, direi con disprezzo. È il minimo dopo che abbiamo scopato, il minimo dopo l’opinione che hai espresso, che uomo di merda. Questo pensa. Guarda il cameriere:
– Pago io.
Il ragazzo, sulla ventina, guarda lei, lo vedo che con gli occhi si tuffa un attimo nella scollatura, poi guarda me.
Io faccio cenno di no, gli do il bancomat.
– Dai, – guardo lei, – Mi faccio perdonare, sono stato un po’ stronzo.
Vedo addolcirsi lo sguardo, solo un attimo.
– No guarda, davvero, mi metti in imbarazzo. Voglio pagare per me.
So che ha ragione. Ma non riesco a cedere. Muovo la testa in cenno di no e il cameriere si allontana con il mio bancomat.
– Ti ho detto che non voglio.
– Sì, ma ti ho invitata io.
– Sì, e io ci sono voluta venire. In un posto “fighetto”, come dici tu. Come ci porti le ragazze però nei posti che di cui noi scriviamo, eh? Dove l’hai trovato?
Insiste. Non voglio andare oltre ma insiste.
– Sì, esisterebbe comunque però, anche se voi non esisteste. Se non ci fosse invece, lo sai sì?
Resta in silenzio. Il cameriere ci porta lo scontrino e mi restituisce il bancomat.
Ci alziamo e usciamo dal locale ormai semivuoto, fuori ha smesso di piovere. Lei non parla.
– Ti accompagno alla macchina.
– Tranquillo, è questa, qui.
– Allora a presto, vado che domani mi sveglio presto.
– Sì è vero, Rimini, il premio.
– In bocca al lupo.
– Crepi.
Le do un bacio sulla guancia, lei resta ferma, il profumo del poco trucco rimasto sul viso mi solletica il naso, ho già il suo odore ovunque quindi non percepisco altro.
Mi allontano, penso a quel ristorante dove mi portarono i miei amici di sempre un annetto fa. Il Gambero Rotto. Una roccaforte che combatteva, temo abbia chiuso, tutto quello che anche io rifiuto. Gambero Rotto perché, mi disse il proprietario, si era rotto i coglioni della suddivisione elitaria del cibo, gli raccontai perché non mangio gelato. Lui mi disse che questo è amore. Amare è restare ai margini, anche se sei conosciuto, restare ai margini di chi tratta il cibo come un trofeo, amore è essere solo dentro al cuore della gente, per strada. Poi indicò il suo locale, al tempo lo ricordo pieno zeppo. È proprio così, ai margini dell’élite, nel cuore della gente. Quasi mi viene voglia di mangiarmi un gelato.