Papille, il seguitissimo critico gastronomico fuori dagli schemi, amato dal popolo e temuto dai più grandi chef, perde l’uso della lingua e del gusto per la vendetta di uno chef stellato.
Puntate precedenti
Capitolo 1 – Panace di Mantegazza
Capitolo 4 – Mignon vegani, alici, cacao e melanzana
Capitolo 6 – Pomodoro Ciettaicale
Capitolo 9 – Zuppa di pipistrello
Capitolo 10 – Tramezzino pollo e insalata all’obitorio
Capitolo 12
Pesce fresco
Il ristorante L’accricco visse gli anni migliori a cavallo tra la fine degli ottanta e l’inizio dei novanta.
I tavolini all’aperto colmi di persone, i piatti fumanti gonfi di pasta fatta in casa. La specialità di mare. Il via vai di gente a pranzo e a cena.
Per il giovanissimo Papille c’era però solo il venerdì. Quando il pesce fresco arrivava al mercato. Il padre la mattina alle quattro lo svegliava e se lo portava con sé.
Il mercato Papille lo ricorda come un formicaio. Un brulicare di gente e di voci cavernose che echeggiavano tra i banchi di frutta e verdura. L’odore forte di mare tra i banchi pieni di ghiaccio e pesce.
Al banco di Angelina, dove Romolo Ammaniti spediva Ermanno Papille a prendere prodotti freschi, il pesce veniva guardato, odorato, controllati gli occhi, toccata la spina dorsale e se tutto risultava conforme alle esigenze, acquistato. Quando il piccolo Papille indugiava nel toccare merluzzi e sogliole o non capiva la freschezza delle cozze, il papà lo indirizzava. Gli muoveva le mani per tastare e indicava con gesti veloci i punti da analizzare.
Poi papà e figlio si avvicinavano a pochi centimetri dagli occhi vitrei dei pesci per osservarne rigonfiamenti o opacità. Era un rituale atteso tutta la settimana da Papille. Veniva investito di grande responsabilità. Inoltre durante il tardo pomeriggio d’estate, se il pesce era stato di gradimento in cucina per essere preparato e servito, Papille riceveva il permesso dal padre di giocare davanti alla piazzetta del ristorante, mentre lui lavorava. Questo per due volte alla settimana. Il martedì e il venerdì. Gli altri pomeriggi seguiva il corso di francese come avrebbe voluto la madre.
C’era una fontana senz’acqua al centro della piazzetta su cui affacciava il ristorante. Era colma di erbe selvatiche rinsecchite. Papille prendeva i sassi da terra, li lanciava dentro la fontana e poi faceva un passo indietro. Raccoglieva un altro sasso e faceva un altro passo indietro. Sempre più lontano. Si emozionava quando faceva centro dandosi il cinque sulla coscia; o vedere il sasso rimbalzare e schizzare vicino a qualche passante gli faceva venire dei colpi di calore arrossandogli le guance. Il gioco finiva quando o il padre in maniera gentile con un – Piccolo vieni qui, – o l’odioso cuoco Roberto con qualche insulto in dialetto, non lo costringevano a smettere.
Gonfio di delusione, ma troppo mite per esploderla, si metteva a sedere sul bordo della fontana. Guardava i clienti arrivare, il padre ossequioso chinare ripetutamente la schiena, ringraziare. Poi sentiva Roberto apostrofarlo come se fosse un asino da soma. – Ermanno vai lì, Ermanno vai a prendere il pesce, Ermanno non scuocere la pasta. Ermanno l’ordine del tavolo cinque.
Ermanno Papille, senza alzare lo sguardo, eseguiva.
Su questo il principale, Romolo, interferiva ben poco. Papille intuiva in lui un atteggiamento di sufficienza verso suo padre. Lo redarguiva con gusto, anche se bonariamente.
Per quanto fosse incomprensibile per Papille, intuiva che il cuoco avesse più potere del proprietario.
– Loro sono così, piccolo mio. Così è nei ristoranti di qualità, serve rigore. Che ci sto a fare qui a L’accricco solo in cucina a imbellettare i piatti? Io mi do da fare dove serve. Il cuoco da solo non va da nessuna parte.
Sono quelli come tuo padre a mandargli avanti la baracca, ricordatelo! – gli ripeteva durante le pause.
Un venerdì Papille decise di entrare in cucina di nascosto. La cucina de L’accricco era una sala rettangolare con in mezzo una grossa isola costellata di fuochi blu. Alcune pentole erano così grandi che Papille ci sarebbe potuto entrare dentro in ginocchio. Ai lati lunghi tavoli da lavoro erano unti di cibo. Verdure spezzettate tra teste di pesce ovunque. Utensili di ogni dimensione, mestoli, fiammiferi, padelle anti aderenti, padelle piccole, grembiuli, sale, spezie, forchettoni.
Non era mai entrato di nascosto lì dentro. Non ci aveva mai pensato. Strisciando a terra, ogni genere alimentare possibile gli si appiccicava sulla maglia, ungendogli inoltre le mani.
Romolo Ammaniti, il cuoco Roberto ed Ermanno Papille entrarono quando Papille si era appena accovacciato dietro l’isola. Parlavano animatamente i due uomini mentre il padre era in silenzio.
– Ermanno, dagli le mance.
– Ma Romolo, sono le mie mance, io ci vivo con la miseria di stipendio che mi dai.
– Dagli le mance Ermanno. Quello cucina, tu lecchi i culi. Vieni qui, ti do io qualcosa da leccare.
Papille sentì il rumore di una zip, poi di uno schiaffo. Si appiccicò all’alluminio dell’isola facendo rumore. Si immobilizzò. Nessuno si accorse di lui.
– Ma Roberto, ti prego.
– Ermanno. Così impari a leccare culi e a tenere le mance. Lo sai.
Papille provò a sporgersi. Vide il padre in ginocchio, il cuoco aveva i pantaloni calati e teneva il grembiule con una mano, di lato. Romolo Ammaniti gli bloccava le gambe con un piede.
Papille si ritrasse e restò immobile. Poi sentì un rumore di banconote frusciare, qualche spiccio e dei passi uscire dalla cucina. Provò ad affacciarsi di nuovo. Roberto il cuoco e Romolo Ammaniti erano usciti. Suo padre era schiena alla porta con una mano sul viso, rosso in volto. Papille rimase a guardarlo a lungo. Poi indietreggiò silenzioso. Uscì dal retro, da dove era entrato. Il cuoco Roberto era lì che si fumava una sigaretta. Aveva fatto il giro. Guardò Papille e fece un tiro della Marlboro. – Ne vuoi pure tu ragazzino? Ne fece un altro più profondo. Poi guardò altrove.
Papille corse nella piazzetta. Si sedette sulla fontana come sempre in attesa del padre.
La lunga salita per Matera è il tratto più faticoso.
– Mia sorella abita in zona Agna. – Dice la donna.
Papille non conosce Matera. Apre l’agenda, sfoglia fino alla pagina dove ritrova:
Fabio Carletti, Viale del Giglio 25 335790856. Revisore conti voluto da Mauro.
– Qui.
– Sì non è lontano. Se vuoi ti accompagno. Tagliamo per i Sassi e ci siamo.
Una lieve luce d’alba si affaccia sopra la città stesa sul promontorio.
– Sai cosa sono i Sassi? – Chiede Linda.
Papille annuisce.
– E che ne sai, nessun becero che ho incontrato sa niente di niente di solito.
Papille scuote le spalle. Pensa di dover stare più attento. Anche se difficilmente la donna può conoscerlo.
– Be’ te lo dico lo stesso. Perché secondo me non lo sai. Sono quartieri, anzi rioni fatti di pietra.
Papille sorride.
Il sole inizia a illuminare parte della via. I due si affrettano fino ad arrivare su Viale del Giglio senza incontrare nessuno. La strada è una via secondaria, costellata di alberi e buche sull’asfalto.
Verso l’altezza del numero venticinque, Papille nota una vecchia Mercedes.
In strada non c’è nessuno.
Immagina su nello studio del consulente i due albanesi e magari anche Rosa Sarpi farsi aggiornare sulla situazione, decidere di braccare il tipo che ha morso alla gola uno di loro e la donna che ruba.
– Tutto bene? – chiede Linda.
Papille annuisce indicando la macchina.
Linda sembra riconoscerla, indietreggia di un passo.
– Andiamocene – Dice.
Di Linda tutto si può dire tranne che sia una sprovveduta. Pensa Papille. Ora però ha gli occhi che vibrano di paura. Il volto scavato. Le braccia conserte all’altezza della pancia.
– Io me ne vado. Ti ho accompagnato fin qui, ora vado da mia sorella. Ma perché non te ne vieni con me?
Passa qualche secondo.
– Rispondimi!
Dal portone del venticinque esce un uomo. Grasso, con i capelli unti e l’aria trafelata. Papille non ne è sicuro ma la maglia larga e sformata ha grossi aloni sul ventre e sotto le ascelle.
– Io me ne vado, perdonami.
Papille la guarda. Le fa cenno di andare e si incammina a passo svelto verso il portone che si sta chiudendo.
Riesce ad entrare. Dentro l’androne, davanti a lui si para nella penombra l’albanese Adriàn che si ferma e lo guarda. Solo dopo qualche istante, lo riconosce.
Continua…