La madre di Gabito

Gabriel Márquez si prepara a passare la notte su una seggiola di ferro, nel corridoio centrale di un malandato battello a motore.

È il 18 febbraio del 1950, Gabriel García Márquez si prepara a passare la notte su una seggiola di ferro, nel corridoio centrale di un malandato battello a motore. Ha quasi ventitré anni, si è imbarcato di sera, a Barranquilla, per raggiungere il canale fluviale che sfocia in una vasta palude dalle acque torbide e motose. Rilegge Luce d’Agosto del suo nume tutelare, William Faulkner, e fuma senza sosta, usa il mozzicone non ancora spento per accendere una nuova sigaretta, incessantemente, una dopo l’altra. Soffiano con la loro forza primitiva i venti alisei sulla lancia che percorre il fiume, traballando, come per i tremori d’una febbre. Le persone a bordo hanno preso d’assalto le panche di legno per sistemare alla bell’e meglio bagagli e fagotti, stie e gabbie di animali, si sono contesi a gomitate i ganci per sospendere le amache. Su due brande sono accampate le meretrici che entrano ed escono dalle cabine occupate dai clienti, anguste e soffocanti. Sua madre è seduta sulla seggiola accanto a lui, sgrana il rosario dai chicchi grossi dei frati, s’aggrappa alle litanie mentre vento e tempesta sferzano l’imbarcazione, in balia delle correnti oceaniche che investono il fiume. Imboccano il canale scavato un tempo dagli schiavi, a braccia, e finalmente la pioggia cessa, il vento si placa, spira una leggera brezza.

Gabito ha fatto fatica a riconoscere sua madre. Lei non aveva idea di come ritrovarlo, qualcuno le ha suggerito di cercarlo alla libreria Mondo di Barranquilla, dove due volte al giorno si ritrova a chiacchierare con gli amici scrittori, o nei caffè accanto. Nel fornirle indicazioni, l’hanno messa in guardia: “ci stia attenta perché sono dei pazzi scatenati”. Se l’è trovata di fronte, a mezzogiorno in punto, con lo sguardo malizioso di chi sa di presentarsi a sorpresa. I capelli sono precocemente incanutiti, indossa i suoi primi occhiali bifocali e un severo abito a lutto per la morte della madre.  Pare sia sceso un velo d’autunno sul suo volto, che però conserva la bellezza classica delle donne della sua famiglia e un’aristocratica fierezza.

Prima di abbracciarlo, con il suo stile formale e sostenuto, gli chiede di accompagnarla a vendere la casa di Aracataca, il villaggio dove è nato. Gabriel García Márquez ha abbandonato la facoltà di legge, riesce a malapena a sopravvivere con quello che guadagna con gli articoli quotidiani su “El Heraldo”, veste come un pezzente, ha i capelli scarmigliati e incolti, i baffi arruffati, fuma sessanta sigarette al giorno, le più economiche, di tabacco nero avvolto da cartaccia, dorme da amici, dove capita la notte. Non ha problemi ad acconsentire, ma deve rimediare in qualche modo i soldi per pagare i suoi biglietti. Chiede un prestito al direttore del giornale che non glielo concede: gli ricorda che ha ancora un debito pregresso di cinquanta pesos. Ripiega allora sul suo vecchio maestro, il libraio, che ne ha solo sei da prestare.

La madre, con la forza di carattere tipica, data dall’impronta matriarcale della sua famiglia, affronta quel “viaggio brutale” con un’eroicità semplice e solenne. A mezzanotte, Gabito per qualche minuto chiude il libro ma non smette di fumare, la madre gli chiede conto degli studi interrotti, lo rimprovera e lo sprona a riprenderli. Lo pungola per tutto il viaggio, alla sua maniera, severa e dignitosa, ma trova qualsiasi pretesto per rimarcare il disappunto, gli ricorda che l’unica cosa che interessa anche papà sono i suoi studi, anche quando s’incagliano tra i grovigli di anemoni del canale e le mangrovie lussureggianti e colonizzatrici. Gabito le risponde che non li ha mai interrotti. Ha solo cambiato carriera. 

Dopo essere sbarcati sguazzando nella melma a Ciénaga, squadre di facchini s’incaricano di trasportare i bagagli. Riprendono il viaggio col treno, fino a destinazione: Aracataca. I binari attraversano immense piantagioni di banani, che si estendono in lunghi filari ordinati; il treno passa davanti alla piantagione che l’ha attratto fin da bambino per la piacevole risonanza del suo nome, che porta impresso, unica fra tutte le piantagioni, su un cartello all’ingresso: Macondo.

Scendono ad Aracataca, il paese è deserto e abbandonato, battuto dal vento ardente e secco: visione arcaica ma cristallizzata nella memoria, dentro la quale s’innesta il microcosmo di Cent’anni di Solitudine. Forse il paese, sprofondato nell’oblio, ancora è avvolto da quel “delicato vento di luce che strappava le lenzuola dalle mani e le spiegava in tutta la loro ampiezza”.

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