Solleticando la curiosità più civettuola, ci colpisce per le numerose avventure amorose per le quali gli spetta il titolo di dongiovanni. Molto amato dalle donne, custodisce gelosamente ogni segreto e all’apparenza la sua vita si presenta spoglia di avvenimenti di rilievo: “lo scrivere e il parlare di me mi sono antipatici addirittura”. Le sue storie d’amore si sussurravano piuttosto che raccontarle, intimiditi come si era dal suo stesso riserbo.
In casa della contessa Maffei, noto ritrovo di intellettuali e artisti in via Tre Monasteri a Milano, Giovanni Verga partecipa alla più vasta vita letteraria del paese. Nelle due sale, le donne lo circondano a tal punto che è difficile avvicinarsi a lui, che sta in “contegnoso silenzio” in mezzo al vivace cicalio, con un sorriso a fior di labbra, misterioso, e un’espressione malinconica, come fosse afflitto da un patimento romantico. Pieno di fascino e di talento piace alle donne senza mostrare di metterci un impegno particolare. Carnagione olivastra, capelli presto brizzolati, occhi grandi e mobilissimi in un volto affilato, calmo e quasi impassibile, dà l’idea di possedere il senso della misura nella parola e nel gesto. Veste con sobrietà, la sua eleganza non è vistosa, si muove poco e parla meno. È un “uomo fatale”. Si vocifera di una nobildonna che lo abbia incontrato in treno durante il viaggio di nozze, e si sia invaghita di lui a tal punto da abbandonare poco dopo il marito.
Nel 1883 scoppia uno scandalo a Catania, divampa l’amore per la maestra Giselda Fojanesi, sposa dell’amico e celebre poeta concittadino, Mario Rapisardi, uomo piuttosto gretto e rude nei modi, litigioso d’indole, che scopre la tresca, gli inveisce contro e ripudia la moglie.
Mantiene fino alla morte un rapporto epistolare con Dina, vedova del conte piemontese Alessandro Brucco di Sordevolo. Dopo alcuni giorni trascorsi in un alberghetto nel verde, un Verga innamorato le scrive: “Mi è sembrato di lasciare costì la parte migliore di me… ti adoro anima mia come mai ho adorato altra donna… ti rivedo nella penombra della nostra stanzetta, con le bellissime spalle nude e invitanti, che non smettevo di accarezzare; e poi distesa sul letto, incantevole e ardente, senza mai staccare la tua bocca dalla mia…”
E ancora da Catania, Giovedì 18 febbraio 1904:
“Cara, cara Dinuzza mia! Mi dai la tua bocca, e mi domandi se voglio? Se voglio! E hai addosso la febbre? Ed io? M’hai un po’ scombussolato anche me adesso… E vuoi sapere da me cosa sia?… cos’è il visino filato filato, e le manine trasparenti, che dicono tante cose… Tante cose mi dicono, anche da lontano… Sai che bisogna aver pazienza… Ti rammenti quando facevo il broncio, e tu facevi a non accorgertene. E patatì, e patatà, e oggi non sto bene io, e domani non stai bene tu… Quanti begli oggi e quanti bei domani abbiamo sciupati, cattiva! Ma non mi far la cattiva adesso, veh! Cara, cara, “la notte ch’è un vero supplizio”! Ora ti diverti a farmela passare a me, la notte col supplizio. Perché è vero che dico bisogna aver pazienza, questa quaresima di passione, ma è dura da rosicare”.