Un giovane trasporta droga ingerendola nella speranza di guadagnare soldi per comprarsi una casa.
Help è una storia in cinque puntate ambientata a Roma.
Puntate precedenti
Capitolo I – Digestione alternativa
Capitolo II – Sottovia portami via
Capitolo V
Libertà?
Mi aprono. C’è un po’ di gente dentro. C’è uno striscione e intorno qualche piantina e un sacco di gente diversa da quelli normali in giro per strada. Che poi sarò diverso io per loro. Io voglio solo tornare a casa, ora. Ma casa quella giù da me. Mica quella che dovevo comprare con i soldi dell’Italiano ormai andati. Si avvicina uno. Un tipo con un sigaro in bocca la barba la faccia stanca e dice ciao.
Io dico ciao. Indietreggio. Ciao è una delle cinque parole che conosco. Ciao, italiano, barca, fame, casa. Queste sono.
Dice altre cose poi. Tutti gli altri uomini, pure due donne, si avvicinano. Devo scappare devo correre via o vogliono aiutarmi?
Non lo so. Al mio paese quando lontani da casa ci si sente minacciati da gruppi di altri villaggi, si grida il nome del proprio capo, del proprio villaggio di provenienza. Se è un capo degno di rispetto il pericolo va via. E sei accolto come straniero. Altrimenti, puoi anche morire.
La pancia si muove. Ho fame. Si muove come se avessi bolle dentro che salgono e scendono. Da dopo il viaggio con la roba dentro, sento tutto. L’uomo con il sigaro è più vicino. È il capo, ne sono sicuro. Dico che vengo da lontano, che ho perso le mie cose che non capisco la lingua che mi hanno spruzzato l’acqua addosso e che non dormo da giorni. Ma nessuno capisce la mia lingua, nei loro occhi lo vedo.
Fame. Dico nella loro di lingua. E mentre lo dico sento dietro di me, fuori dal cancello, fermarsi una macchina.
Mi giro. È di nuovo la stessa macchina di prima blu con la sirena sopra e la pantera di lato e dentro due tipi vestiti in maniera diversa dagli altri. Il cielo lo intravedo ed è scuro. I due scendono. Io non ci penso su due volte. Li guardo e non ci penso proprio. Inizio a correre nel cortile di questo posto con la gente diversa che un po’ mi assomiglia. Passo vicino a un uomo senza denti che mi sorride a una donna con i capelli che sembrano nidi di uccelli con gli occhi storti, un uomo alto immobile che sembra di gomma. Poi un gigante con la pancia grossa e una cicatrice sull’occhio che grida – No! – in continuazione. Corro. Dal cortiletto entro all’interno ci sono libri ci sono tavoli e sedie e una cucina e io corro butto a terra un secchio che quasi cado anche io e su un tavolo c’è del pane con del formaggio e mentre corro ne prendo un po’ perché se c’è una cosa che ho imparato, è che la fame è il bisogno che viene subito alla mente quando si sente e non ti fa capire più niente. La sete ti asciuga l’anima, la fame ti coltiva la rabbia. Sento grida dietro di me, supero una signora su una sedia a rotelle e, e, e non so più dove andare. Ci sono due bagni e il corridoio finisce su un muro con un quadro del mare.
Mi giro. I due uomini con i vestiti da militari blu e pure le pistole sono davanti a me. Il capo di questo posto ha il sigaro in mano e si mette tra me e loro e parla. Parla piano, ma parla tanto. Mi guarda, guarda il pane e il formaggio che ho in mano poi mi guarda negli occhi e sento che mi vuole dire qualcosa di buono, penso questo. I due uomini vestiti di blu mi ricordano i militari del mio paese vestiti di verde che venivano a violentare le donne, ma questi due hanno occhi più buoni.
L’uomo con il sigaro dice tre parole una sicuro è “help”. Poi una cosa come “binario”, poi altro ma non capisco.
E se vuole fregarmi? E se vuole solo trovare un modo furbo per consegnarmi a questi militari? Io ora ho fame e vorrei mangiare e stringere mia madre e sentire l’odore di casa quello che è inconfondibile. Guardo pane e formaggio ma un uomo mentre mangia è più debole. Resisto.
Devo tornare a casa. Mi lancio di corsa verso il capo e lo investo con tutta la forza che ho. Il sigaro vola in aria e lui cade a terra e io scivolo barcollo ma mi reggo in piedi e lo supero, ma nella sala in meno di un pensiero, i due simili ai militari del mio paese mi sono addosso. Mi bloccano le mani e mi buttano a terra e mi mettono di nuovo dei pezzi di ferro sui polsi. Io mi dimeno come quando si deve espiare una colpa e si mette la schiena sul fuoco ma io che colpa ho? Mi dimeno e scalcio e un calcio arriva sulla pancia di uno dei due che poi mi da uno schiaffo sulla nuca. Che subito si arroventa e io mi dimeno ancora di più e riesco a mordere, un morso degno di un leone. Mordo la mano. Nel mio paese quando sgarri e ti tagliano le mani con il machete puoi scegliere manica lunga o manica corta. Manica lunga ti tagliano all’altezza del polso. Manica corta ti tagliano all’altezza del gomito.
Io non voglio mi taglino le braccia. Qui non so come funziona, io non ho rubato niente io voglio solo tornare a casa. Ma stringo la bocca sulla carne di questo uomo che salta all’indietro e si perde un pezzo di pelle mentre la mano si colora di rosso.
E alzo lo sguardo come posso e vedo la sua furia cieca scagliarsi contro di me odiarmi e caricare un piede la vedo la gamba che indietreggia e si alza e come quando sulla spiaggia vuoi fare un goal e vuoi tirare il pallone forte più forte che puoi, lui sta per colpire. E io so che mi colpirà sulla testa. Chiudo gli occhi.
Li strizzo. Stringo ancora di più. Delle braccia mi alzano. È l’altro uomo in divisa che grida qualcosa. Mi trascina verso l’uscita mentre il tipo che ho morso si lamenta, è seduto su una sedia e si tiene il braccio e sanguina. Negli occhi del capo, quello con il sigaro che si è alzato da terra e ci segue, non vedo rabbia. Forse delusione. Forse una speranza mancata. Forse capisce più di me.
Poco dopo lo vedo nel cortiletto di questo Binario, help penso, le uniche cose che ho capito, mi guarda andar via da dentro la macchina blu con la pantera disegnata.
In cella fa freddo. Ma due mattine dopo mi tirano fuori. Non capisco. Mi trascinano davanti a una scrivania dove c’è una donna. Mi danno un foglio e una penna e io faccio una x dove la donna vestita con la solita divisa blu mi indica. È bella penso. Non ero mai stato in carcere. Questo più che un carcere sembra una stazione di polizia. Un poliziotto mi porta fuori e mi consegna dei fogli. C’è il sole. Davanti alla stazione che dà su una piccola via c’è il capo con il sigaro che mi sorride e annuisce. Vado verso di lui. – Kimoni! – Grido. – Kimoni! – Grido di nuovo. Grido il nome del mio capo, del capo anziano del mio villaggio. Davanti a me l’uomo con il sigaro sorride, non sono certo abbia capito, ma sorride di nuovo e mi fa cenno di seguirlo. Forse quel Binario di cui lui è il capo mi riporterà a casa.
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“Binario 95 è il centro diurno che accoglie senza dimora, lo fa senza giudizio, accoglie solitudini del mondo riempiendo i vuoti che la gente comune evita. Questo racconto è dedicato agli operatori ma anche a tutte le persone che su quel binario hanno trovato una casa.”