Papille, il seguitissimo critico gastronomico fuori dagli schemi, amato dal popolo e temuto dai più grandi chef, perde l’uso della lingua e del gusto per la vendetta di uno chef stellato.
Puntate precedenti
Capitolo 1 – Panace di Mantegazza
Capitolo 4 – Mignon vegani, alici, cacao e melanzana
Capitolo 6 – Pomodoro Ciettaicale
Capitolo 7
Battuto d’occhio
Il sapore della polvere di gesso ancora lo ricordo, dottoressa. Non che fossi lo zimbello della classe, ma alle medie essere silenzioso e mite non giocava a proprio vantaggio. Mi lapidavano lanciandomi il cancellino con una violenza inaudita, puf! Il professore faceva in tempo a girarsi nel momento in cui mi esplodeva il gesso sulla faccia, il palato si seccava per via della polvere e mi veniva da starnutire e su tutti i vestiti si posavano pulviscoli bianchi.
A casa mio padre non mi diceva nulla in merito, era un tipo tranquillo, di quelli:
– Poi passa, è normale è l’età.
Era come quei pesci che nuotano sempre dritti in grossi banchi, se non incrociano predatori la vita scorre via silenziosa. Anche quando la Preside lo chiamò per quella storia della matita dentro l’avambraccio di Oscar Amadei, il bullo dell’altra sezione, non della mia, mio padre non fece altro che dirmi:
– Vedi, di certo lui avrà problemi più grandi di te, lascialo fare, è pericoloso conficcare matite per difendersi. Poi diventano coltelli, poi chissà. Tu sei bravo, non essere cattivo.
Quindi, dottoressa, io mi chiedo, potendo contare in queste due mani le esplosioni di rabbia avute in tutta la mia vita, non fosse proprio in quelle manifestazioni che la mia esistenza toccasse corde più profonde di verità e che il resto fosse solo una finzione perpetuata dentro una bolla immaginaria che attutiva il mondo?
Il fatto è che mia madre per i miei primi anni di vita era come se fosse morta, mi capisce no? Capisce cosa intendo dottoressa?
E quindi ecco il momento dello scarafaggio. Mentre me lo masticavo e mi piaceva e mi sentivo vivo e disgustai quei bulli, capii che non ero come gli altri. Io a quello lì ad esempio, quell’Amadei, gli avrei conficcato la matita dritta nell’occhio per veder zampillare il sangue e vederlo svuotarsi come un calzone che si libera della mozzarella filante. Ma io parlo poco, molto poco in mezzo alla gente. Tengo oggi questo canale YouTube perché ho il filtro della videocamera per parlare, io in mezzo alla gente dico sì e no tre parole. E da quando sono qui, solo qui dentro queste mura qua dove lei mi sta seduta alle spalle e la sento scrivere e io non la vedo e penso di parlare con la casa disegnata nel quadro che ho davanti a me, là nel quadro durante le prime sedute mi ci immaginavo una nuova vita.
Da quando sono qui solo qui io parlo come se i cinquanta minuti concessi fossero un apri il rubinetto quando ti sdrai e chiudi il rubinetto appena ti alzi. Poter tornare allo scarafaggio da diversi punti di vista, per quanto illuminante sulla mia propensione all’attenzione culinaria odierna, è importante. Le ho detto come mi vendicai sì? Le ho raccontato tutta la storia della matita? Credo di sì, credo di avergliela raccontata dottoressa.
L’Alfa Romeo sgomma lontano dall’ospedale. Sulle gambe Papille ha ancora l’alone di freddo del fondo della ghiacciaia, l’umido dei pantaloni si attacca alla pelle lasciandogli piccoli brividi uno vicino all’altro. Il coltello che l’albanese gli aveva puntato al collo si è ritratto. Papille in fondo lo sapeva, con quel casino del braccio mozzato non avrebbero di certo tirato fuori dalla notte un cadavere.
Chissà Mohoshin. Pensa.
Attraversano una rotonda, nel mezzo una fontana senz’acqua se ne sta arida e secca. Appollaiato all’apice svetta il Dio Bacco intento a ingoiare un grappolo d’uva. Ha i piedi sbeccati da qualche vandalo e dal tempo. Le casupole intorno sono basse e hanno le finestre serrate, tutte hanno piccoli giardinetti all’entrata e una cassetta della posta bene in vista.
Un cartello annuncia la frazione di Tricarico.
– Adriàn, questo qua lo fai dormire con gli altri?
– Sì.
– E ti fidi di ‘sto stronzo Adriàn?
– Guardalo facia Idlir, s’è dannato per trovare posto di lavoro. Manco capisco se è italiano. Che sfortuna per lui ha fatto vedere problema di Mohoshin, se parla gli taglio gola.
Papille li guarda. La pelle biancastra, il gusto dell’orrido per il vestire, per il mangiare, per l’esistere.
Adriàn fissa Papille.
– Dove hai trovato questo posto?
– D-deep web, poi eleg-am.
– Telegram. ‘Sto ritardato porco cazo manco sa parlare.
– Deep web chi ti ha detto? mi hai roto cazo setimane per questo lavoro.
– Ho bbiogno di lavoae.
Papille fatica, strizza le labbra in una smorfia appena visibile.
– Bravo. Qui si parla poco, ma lavora tanto.
L’Alfa Romeo rallenta.
L’uomo con la cicatrice parla:
– Siamo arrivati. Ke arritur, budalla.
All’inizio della via Papille intravede due uomini, sono sentinelle a guardia del vicolo.
Il vicolo è in disparte, non visibile dalla strada principale. Il terreno è dissestato, le case sono dipinte di un grigio scuro tipico delle costruzioni anni settanta. Papille legge alcune scritte sui muri che recitano “Zetazeroalfa”, “A.C.A.B.”, “Geek” e “Campioni del Mondo”.
L’Alfa avanza, gli albanesi fanno un cenno e i due di guardia ricambiano. Dietro una palazzina c’è un parcheggio sotterraneo. Papille si guarda intorno, il pensiero di come si nutrano questi tipi in macchina o anche le sentinelle lo sfiora. Per loro il cibo deve essere solo carburante per andare avanti, nutrimento insomma, senza gusto. Non è che sbaglino del tutto, pensa.
Il parcheggio è poco luminoso per via dell’alternarsi di due lampade blu che si accendono e si spengono. I tre scendono. Papille li segue con lo zaino in spalla, cammina chiudendo la fila del gruppetto. I corridoi in cui si addentrano sono illuminati da grossi neon, somigliano a corsie di ospedale.
– Dai stronzo su – strilla Idlir. Ha l’aria di essere il più debole, pensa Papille notando nelle sue mani un leggero tremolio.
Scendono delle scalette, un altro corridoio scuro alterna porte serrate a muri scrostati. Nel punto in cui si incrociano il soffitto e il muro, due grosse chiazze di umidità ingialliscono la vernice verde sopra un’uscita d’emergenza. Papille conta quattro porte in totale.
– Tu dorme nella quatro. Ultima, là.
Papille annuisce. Arriccia il naso per l’odore di muffa, curry e piscio. Si distrae solo quando sente arrivare un vociare indistinto dalla stanza indicata dall’albanese.
I tre si piantano davanti alla porta e la aprono prima di allontanarsi.
– Domani ale tre del matino pronto in strada. Si vede polizia tu cammina lontano, si tu sbaglia finisce sotto terra, si tu parla di Mohoshin finisce come Mohoshin.
– Cosa successo Mohoshin? – Una voce arriva da dentro la stanza seguita da un vociare flebile. Gli albanesi la ignorano.
Papille entra, la stanza non è più grande del bagno di un autogrill. L’odore acre di sudore gli arriva forte alle narici. Espira. Tanti piccoli occhi lo fissano, ci sono materassi buttati a terra su cui alcuni degli occhi giacciono, altri occhi lo guardano seduti intorno a un tavolo Ikea bianco, altri due sono sul water che si intravede dalla parte opposta della camera. Papille conta almeno quattordici occhi.
Fu una questione di principio, perché alla fine lo scarafaggio mi piacque. Pensa Papille restituendo lo sguardo ai tanti occhi nella stanza. Torna al giorno dopo la storia dello scarafaggio. Dentro allo spogliatoio della scuola grande quanto quel buco nell’entroterra lucano lo aspettavano i tre bulli, mica disperati come questi ammassati nella stanza, quelli a scuola volevano solo fargli la festa. Papille se lo ricorda, non diede il tempo di alcuna mossa e prima ancora che loro dessero il via a qualsiasi cosa avessero in mente, lui si lanciò sul bullo più grosso, Amadei. Gli conficcò una matita dritta nell’occhio una, due, tre, quattro volte fino a che non vide il bianco farsi poltiglia, il sangue schizzare a terra e quell’Amadei correre via seguito dagli altri due.
Papille fa un altro passo dentro la stanza e un cenno di saluto con la testa. Si sofferma su ogni coppia di occhi puntata su di lui.
CONTINUA…