Il papà di Niccolò Machiavelli

... paga il lavoro al legatore “con fiaschi 3 di vino vermiglio e uno fiasco di aceto”...

In una bella mattina del maggio fiorentino, un fanciullo di sette anni esce di casa presso la chiesetta di Santa Felicita, costeggia l’Arno, s’incammina verso Santa Trinità dei Monti, entra in una stanza “a piè del ponte” e apre per la prima volta il libro di grammatica di Elio Donato. Niccolò fa il suo ingresso nel mondo degli studi con il maestro Matteo, l’8 giugno gli porta i cinque soldi del primo mensile. Nel marzo del 1477 è allievo da ser Battista da Poppi che tiene lezione nella chiesetta di San Benedetto dello Studio, due anni dopo, il 3 gennaio 1479, eccolo alle prime armi con l’abaco, affronta l’aritmetica con il maestro Piero Maria a prezzo d’un fiorino per tutto il corso, più le gratifiche pasquali; dal 5 novembre 81 è alle prese con il latino da ser Pagolo da Ronciglione senza alcun patto con il maestro solo qualcosa per il fuoco e le panche.

Scorrendo il Libro dei Ricordi di Bernardo Machiavelli, possidente campagnolo e stimato giureconsulto, si fruga nella fanciullezza del “segretario fiorentino”, l’autore del Principe, scoprendo quanto il senso della misura del padre abbia influito sull’educazione del figlio, formandone la capacità logica e l’equilibrata valutazione delle cose.

Niccolò si rende utile in piccole commissioni di fiducia, il padre prudentemente fa acquisti a rate e manda alle scadenze pattuite il dovuto. Non è strano immaginare Niccolò mentre è a spasso per le colline di Sant’Andrea in Percussina con il sottanino, o si aggira per le stanze di Firenze con le calze paonazze, alla moda di allora, del colore violetto scuro: “calze pagonaze buje”.

Il padre fa rilegare libri di varia dottrina, ottiene le tre Deche di Livio in fogli di stampa, a compenso della laboriosa compilazione di un indice dei nomi “di tutte le città e province e fiumi, isole e monti dei quali si fa menzione nelle Deche”, lo porta a rilegare con altri volumi ma chiede per Livio una speciale cura, d’impreziosirlo con cuoi e fermagli. Mentre il padre è in campagna, Niccolò paga il lavoro al legatore “con fiaschi 3 di vino vermiglio e uno fiasco di aceto”, secondo il fissato, ma è ripreso aspramente dal padre che al ritorno si accorge del lavoro malfatto: vatti a fidare dei ragazzi! Nel novembre del 1477 Bernardo compra cinque braccia e mezzo di “panno garbo tanè tintilano” per ricavarne un gonnellino e un mantello per Niccolò; è un panno di qualità piuttosto fina e il tanè è un colore castano, fra il rosso e il nero.

Con il sospetto di peste a Firenze, nel maggio del 1479, Bernardo manda la famiglia in Mugello a Montebuiano presso i parenti della moglie; premuroso, mette nel bagaglio quei panni per le serate fresche. Dopo aver mandato la brigata in campagna, la peste colpisce proprio lui, Bernardo. Si fa curare di nascosto, se la cava chiamando un chirurgo che taglia il bubbone al piede da cui esce la “barba grande quanto un uovo di gallina”. Intanto Niccolò prende un’aria protettiva verso il fratellino Totto, va alla messa nella chiesetta di Santa Felicita, d’estate corre per i campi e d’inverno va a scuola come tutti i ragazzi.

Bernardo è risparmiatore parsimonioso, forse un po’ avaro, tiene conto persino delle funi con cui legano le balle; il giorno delle nozze di Primavera, la prima figlia, devono contentarsi di una cenetta in casa con gli amici intimi. Niccolò cresce con la netta sensazione d’essere nato in una famiglia povera. Scrive a Francesco Vettori: “nacqui povero, e imparai prima a stentare che a godere”. Il diario di Bernardo si chiude quando Niccolò ha diciotto anni.

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