Il quartetto triestino di Joyce

Alto, magro, allampanato, lo si incontra spesso camminare tra i vicoli della città...

Alto, magro, allampanato, lo si incontra spesso camminare tra i vicoli della città: Trieste, la “grigia madre dolce”, dal mare “verde moccio”, la sua seconda patria dopo Dublino, dalla quale ha scelto l’esilio, condizione di cui si compiace poiché la stessa dell’amatissimo Dante.

Nelle sue peregrinazioni tra gli androni, le piazzette, le bancarelle della città vecchia, si ferma a studiare i passanti, coglie suggestioni dagli scorci più pittoreschi. Assorto nei pensieri, nel flusso di coscienza che alimenta il capolavoro a cui sta lavorando, l’Ulysses, pare errare sospeso in quella linea ininterrotta del tempo, dove “The Past is consumed in the Present”.

Un giorno, dall’appartamento di via Nicolò dove risiede con la famiglia, “il quartetto triestino”, come ironicamente la chiama, James Joyce s’incammina con la tipica andatura dinoccolata verso Villa Veneziani. È atteso dagli Schmitz, che hanno chiesto alla Berlitz School di Trieste un insegnante privato che impartisca lezioni di lingua inglese. James Joyce, che non è mai riuscito a vincere una cattedra universitaria, ha alla Berlitz un’occupazione fissa.

Durante una delle prime lezioni, Joyce svela di aver pubblicato una raccolta di poesie e i racconti Dubliners, la coppia ne è entusiasta, tanto che Livia Veneziani esce in giardino e porta a Joyce un mazzo di rose. Hector Schmitz, che si firma con lo pseudonimo Italo Svevo, incoraggiato, confessa timidamente di aver scritto due libri “non riconosciuti da nessuno”. Joyce chiede di leggerli. Appena li ha tra le mani, li rigira scrutando con le lenti spesse, dalle quali traspaiono grandi occhi azzurri, che si rivelano piccoli, delicati, fortemente miopi quando per caso li toglie. Alla lezione successiva, Joyce recita a memoria diversi brani di Seniltà. Dichiara che Svevo è un grande scrittore e che “la critica non ha capito nulla”.

Joyce si compiace di usare parole audaci nei suoi scritti, ma rimane turbato quando Svevo racconta qualche barzelletta spinta. Sorridendo, un giorno glielo fa notare: “Si vede che i suoi libri non devono essere letti ad alta voce dinanzi a lei, altrimenti ne rimarrebbe scosso”.

La sera il dimesso irlandese, più volte sfrattato, sempre senza un soldo in tasca, vaga tra le bettole del porto, s’intrattiene con i marinai e gli scaricatori, talvolta si fa prestare una chitarra, suona e canta con la bella voce canzoni nel dialetto triestino, la sua seconda lingua. Il fratello Stanislaus, regolarmente, lo va a ripescare, caricandoselo sulle spalle, ubriaco fradicio.

I contatti fra Joyce e Svevo sono frequenti fino al 1914, dichiarato lo stato di guerra tra Austria e Gran Bretagna, Joyce è costretto a rifugiarsi in Svizzera. Prima di partire, chiede a Svevo di tenergli il cane maschio, dal lungo pelo bianco. Livia visitando la cuccia, un giorno, trova un’intera cucciolata, il cane è femmina.

Nell’appartamento, dopo che è partito, il proprietario rinviene scatolini zeppi di libri.

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