La danza di Nelly Sachs

L’olocausto può diventare tema musicale che si piega al verso?

Da piccola ascoltava per ore il padre. Dopo il lavoro improvvisava al pianoforte, lei l’accompagnava a passi di danza e l’atmosfera che ne scaturiva, di profonda corrispondenza, segnò il suo destino di poetessa nella particolare disposizione alla condivisione di un dolore che è di tutto un popolo.

Alle radici della poesia di Nelly Sachs, l’olocausto diventa tema musicale che si piega al verso, una via mediata e indiretta che in sé porta il peso e l’orrore di una tragedia e la forza generatrice di una spiritualità di mistica; Nelly si fa sfiorare da sensazioni fisiche, oltre che dai sentimenti, ne fa esplodere la disperante gravità. Musica e danza sembrano essere il suo elemento più intimo, un modo per esprimersi ancora più fondante della parola.

Una istruzione specifica in fatto di danza non l’ho mai avuta. Nessun metodo convenzionale si sarebbe potuto adattare a questi movimenti elementari; ma anche qui avevo in mio padre il maestro migliore perché egli, precedendo i tempi, sapeva collegare il ritmo del movimento con quello del respiro e per quell’epoca aveva idee rivoluzionarie, che consentivano a ogni essere umano di riacquistare un ritmo naturale, ormai perduto”.

Dopo le famigerate leggi di Norimberga e la violenta campagna di propaganda antiebraica, Nelly Sachs, sebbene non fosse praticante, si sentì coinvolta in un risveglio della tradizione, reazione che fu di tutta la comunità ebraica, con la volontà di preservare la cultura giudaica.

Morto il padre, lei e la madre vissero con ciò che rimaneva del passato benessere, ridotto all’osso dalla sopraffazione delle leggi razziali. Nel 1939, prevedendo il peggio, un’amica si rivolse al Principe Eugenio di Svezia perché il governo svedese offrisse asilo a Nelly Sachs e alla madre. Grazie anche all’intervento di un altro amico, Einar Sahlin, e al comitato per i profughi ebrei, la richiesta fu accolta. Poterono sfuggire al fermo imposto alla frontiera anche agli ebrei con regolare permesso di espatrio poiché un funzionario di polizia le consigliò all’ultimo momento di viaggiare in aereo. Vennero ospitate in un Kinderheim ebraico, con 15 corone di sussidio a testa, poi in un monolocale della capitale svedese che Nelly abitò fino alla morte. Mantenne lei e la madre adattandosi ai più umili lavori in un esilio segnato dal ricordo della persecuzione, nella povertà quando non proprio nella più nera miseria, senza mai dimenticare la sorte della sua gente. La madre riviveva ogni notte il terrore. Le colpì particolarmente la notizia di un caro amico, morto da eroe in un campo di concentramento. Nelly Sachs continuerà a chiedersi come abbiano potuto sopravvivere. Non osava neppure accendere la luce di notte per scrivere, non volendo disturbare il sonno della madre, agitato già dagli incubi. Ripeteva mentalmente i versi che affioravano al buio e alle prime luci dell’alba scriveva quello che era riuscita a ritenere in sé. La materia si spalancava su una ferita aperta, sul sacrificio del popolo d’Israele.

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