Nei capitoli precedenti:
- Capitolo 1 – Il sorpasso
- Capitolo 2 – Frontiere
- Capitolo 3 – In caso di morte
- Capitolo 4 – Terra di nessuno
- Capitolo 5 – Dentro
- Capitolo 6 – Bestialità
- Capitolo 7 – Droni
Ottavo capitolo – Sirene
Entro in questo coffee shop ad Amsterdam immergendomi in una nuvola densa di fumo. Quanti anni avrò avuto? Ventotto, ventinove?
Il pub è pieno di gente sdraiata e seduta, fa caldo. L’odore che mi sale nelle narici è di erba e bacon, lontano anni luce dagli odori che inizio a conoscere in gelateria: vaniglia, pistacchio, nocciole tostate, vino Marsala, latte cotto, panna fresca.
I muri sono pieni di scritte e adesivi e firme di centinaia di clienti con frasi in diverse lingue.
Una ragazza con i lineamenti ordinati e due piercing sotto gli occhi ci sorride.
Sorride e ci chiede se vogliamo mangiare, bere o fumare. Posso scegliere tra muffin al cioccolato, biscotti all’hardy banana, Sativa, Indica. O biscotti salati con funghi magici. Io non ho mai fumato, penso, mai ingerito droghe. Sono terrorizzato all’idea.
– Eh ma nella vita devi provare tutto.
Tutti, almeno una volta, mi hanno detto così. Ma il controllo mi serve. È un metodo che ho studiato negli anni, da solo. Controllo tutto.
Il metodo ti salva la vita.
Ordino un tè alla vaniglia. I miei compagni di viaggio, non proprio amici ma persone per cui nutro affetto e con cui ho lavorato per un periodo, ridono. Ordinano muffin alla cannabis, erba da fumare e quattro drink.
La ragazza mi sorride di nuovo, le faccio tenerezza. Mi gratto il naso con il palmo della mano. Mi guarda negli occhi per trovare la paura, lo sento. Si gira, appunta l’ordine su un telefono e si allontana verso il bancone. Lì due tipi muscolosi con i dread fino alla schiena e le braccia tatuate corrono avanti e indietro, preparano drink e pesano erba.
C’è una cappa di fumo nel locale che, per forza, mi intontirà. Ora che mi sto abituando sarà più infima, letale. Arriccio il naso. Appese sopra al bancone ci sono bottiglie vuote di Whisky Talisker, Nikka, Black Label di Jack Daniel’s, Lagavulin, Armorik fut De Chouchen. Dietro ai ragazzi invece, pende una moltitudine di bottiglie dal Gin alla Vodka passando per estratti erbacei. I due, sono i proprietari, si muovono da proprietari. Chissà, visto da fuori, come sembro io in gelateria.
I due ragazzi parlano con la cameriera che indica il nostro tavolo, sento la maglietta appiccicarsi alla schiena per il caldo. Credo ridano di me, o forse è solo suggestione.
– Non prendi niente, tu?
– No, ragazzi, salto.
– E che sei venuto a fare? Vieni ad Amsterdam e fai il prete col tè?
Sorrido e resto in silenzio.
A togliermi dall’imbarazzo della rabbia, la cameriera torna, guardandomi. Deve essere olandese, ha le gote arrossate e un piccolo tatuaggio sul collo con una sirena che tiene tra le mani una conchiglia. Le traballa il vassoio tra drink lisci, il mio tè e l’erba.
Uno dei miei amici si alza e la aiuta. Le poggia una mano sul fianco, a lungo. Lei si scosta, io faccio finta di non vedere. Poi lo guardo.
– Che c’è?
Io giro la testa e prendo con due mani il tè, un aroma di vaniglia mi sale dentro al naso e fa sparire tutti gli altri odori.
Al centro del tavolo, dopo aver consegnato tutto quello che abbiamo ordinato, la ragazza sorride e lascia dei biscotti sul tavolo e sussurra una parola che mi sembra: “magic”.
– Funghi? – Chiedo.
– Naa. I funghi mica sono nei biscotti, qui è tutta erbona di Cristo. E comunque il principio attivo non c’è nei dolci che fanno qua.
La ragazza si allontana.
– Come non c’è il principio attivo?
Che senso ha fare dei biscotti senza principio attivo in un coffee shop, non è possibile.
– Non c’è, assaggialo. Almeno ti togli la curiosità del sapore, per il principio attivo c’è ’sta bomba qua.
Alza con due dita una cima porosa e pollinosa, verde, di erba.
– No, grazie, sto bene così.
– Andre e dai, è un biscotto, non c’è un cazzo dentro, solo l’aroma.
Lo guardo. Quando si è allergici a qualcosa, la gola si può gonfiare fino a soffocarti. Si creano piccole aree tumefatte arrossate e in rilievo, si irritano e senti delle mani invisibili toglierti il fiato, pugni immobili che occludono il respiro. Lo stesso accade con la rabbia.
Fosse per curiosità gastronomica, forse perché dentro di me una voce dal nulla mi dice: – Assaggialo, ha ragione, non c’è il principio attivo, fidati.
Fosse perché la rabbia mi soffoca e devo calmarmi. Non c’è il principio attivo, penso di nuovo. Mi gratto la testa e apro la bocca per prendere aria e prendo un biscotto.
– Niente principio attivo?
Il collo si sgonfia, ma la voce mi esce flebile.
– Niente! – Rispondono tutti all’unisono.
Così, lo mangio. È un biscotto secco, noto un retrogusto stranamente molto amaro, subito dolce e farinoso. Non mi colpisce affatto, sembra un Brazil Gentilini, scadente. Ma ho fame e ne mangio due, poi tre. E poi bevo un po’ di tè.
Tutti sorridono e mi rilasso, ascoltandoli parlare di lavoro.
La cameriera torna, ha gli occhi verde acqua, è davanti a me e muove le dita. Mi sorride, apre la bocca e canta una melodia tenera. Intona, muovendo le labbra morbide, la storia di una piccola perla coperta di sabbia nel fondale di un mare vuoto, senz’acqua, su un pianeta lontano. Canta in inglese, io resto imbambolato, immobile, fermo ad ascoltarla. Lei si avvicina ancora, ora la pelle sembra ancora più bianca e il suo naso piccolo e delicato respira, è immobile, vedo la pelle squamarsi in branchie rosate. Si alzano e si abissano e sento intorno a me un odore sapido di mare. Canta e io ho un rivolo di bava alla bocca. Vedo la ragazza fluttuare in acqua. Mi manca il respiro, l’acqua adesso arriva tutta intorno alla mia gola e sale sul viso, sento bagnato e vedo lei a pochi centimetri da me. I suoi occhi hanno pupille verticali nere, sotto le labbra ancora carnose sono violacee e si schiudono come per baciarmi. Ma si ferma, apre la bocca. Due file di denti aguzzi, appuntiti come piccole zanne di topo, di colore grigio, incastonate dentro gengive sottili e bagnate da un liquido giallastro si spalancano davanti a me.
Quando parte una sirena antiaerea, resti immobile, come se un’alta marea ti annacquasse il pensiero e il corpo in apnea ti dicesse di correre nella direzione opposta al suono. È un suono che sale lento e resta costante e tu devi andare al coperto. Il punto è l’abitudine. Qui a Uman, la guerra è lontana e la sirena serve solo per sicurezza estrema. Eppure, mi racconta il cameriere del ristorante dove abbiamo cenato, la sirena ti suona dentro e tu hai paura. Ti puoi abituare alla paura, ci vai a dormire e ti ci svegli perché la statistica dice che a Uman sono morte poche decine di persone rispetto al fronte, quindi è difficile i russi bombardino ancora, ormai. Così non cedi al canto della sirena, al suono spaventoso che rimbomba per ore, resti al tuo posto a fare le tue cose.
Il ragazzo butta a terra una sigaretta e alza le mani. Mi mette davanti agli occhi indice destro e indice sinistro.
– Destra è la vita. Sinistra è la morte. Quando suona la sirena, succede così dentro di noi.
Avvicina di colpo le dita fino quasi a farle sfiorare. Poi le allontana, una da una parte una dall’altra oltre le spalle.
– È come quando cantano le sirene del mar Nero, sei inebetito e ti avvicini e loro si avvicinano ma poi sai che devi scappare e scappi.
Aleksander ha circa venticinque anni, non è arruolato perché lavora all’ospedale di Uman e arrotonda la sera nel piccolo ristorante accanto all’hotel dove dormiremo.
– Tranquillo, lontani dal fronte le sirene non ti mandano più nel bunker come all’inizio della guerra. È dentro che ti nascondi, che senti la paura, ma ormai siamo abituati e non la facciamo neanche vedere.
Accende un’altra sigaretta e dà un calcio a un sasso. Il ristorante alle sue spalle è una piccola baia con tetto a spiovente dove si mangia perlopiù carne e patate e molto aglio. Aleksander ha gli occhi piccoli e tondi, c’è un controllo che esercita sulla frustrazione dovuta al non essere arruolato, lo vedo. Una diga inconsapevole che regge tutto, un metodo per non farla deve averlo, lo intuisco ma non lo conosco.
Lo saluto, lui mi sorride e mi ringrazia per quello che facciamo. Sorrido andandomene, allungo il passo nella notte della piccola via, e provo a raggiungere gli altri verso l’albergo. La sirena continua a suonare, cammino dietro agli altri, nessuno di loro sembra sia allarmato, così metto le cuffie e accendo la musica. Nei luoghi, io cerco la musica del posto per capire.
Ho trovato questo artista, Max Barskih, su Spotify. Ha trecentomila ascoltatori al mese, è un artista ucraino. L’Ucraina ha il tessuto europeo strappato e stracciato quotidianamente dall’ombra russa, è da cose come Spotify che si capisce. Parte una sua canzone in ucraino mentre penso alla diga dentro Aleksander. Ce l’ho anche io la diga, che chiamo metodo. Il metodo mi ha solo definito, mi ha scolpito per anni all’interno di mura sicure, morto, e da lì dipingo ciò che è utile per vivere fuori. Ma questo sta cambiando.
La sirena suona, la voce del cantante ucraino la copre, la sirena sembra voler suonare più forte. Alzo il volume e cerco il testo della traduzione:
“La città brucia, e il mio cuore soffre, questa guerra mi spoglia ma il nemico non dorme, i proiettili volano e la neve cade e il nemico giace silenzioso e pronto, e noi la notte non dormiamo, noi non sentiamo il freddo mentre attendiamo le nostre famiglie all’aperto; finché saremo uniti, rimarremo vittoriosi per questa nostra terra. Lascia che sia primavera, restiamo uniti fino alla fine e questa guerra non ci spezzerà, i nostri cuori hanno fili connessi dalla fede nella speranza, l’Ucraina vivrà”.
Da dietro la diga, su nell’orlo della piena dove tutto scalpita per svuotarsi e distruggere il muro che ho costruito, una sola goccia sale su. La sento scivolare sulla diga, cola solitaria e risale dalla trachea fino all’amigdala e poi attraversa la corteccia cerebrale e cola dentro i nervi, fino agli occhi. Una sola, piccola, lacrima cade a terra a lasciar spazio alla primavera.