Nei capitoli precedenti:
- Capitolo 1 – Il sorpasso
- Capitolo 2 – Frontiere
- Capitolo 3 – In caso di morte
- Capitolo 4 – Terra di nessuno
Quinto Capitolo – Dentro
La frontiera ucraina, alle tre del mattino, dopo una lunga pioggia, è avvolta da una coltre di nebbia umida. Il fango degli stivali del militare dietro di me schizza sui miei pantaloni, mentre lui affonda in una pozzanghera colma di melma. Mi prende la mano e mi spinge verso l’entrata.
– Just the driver.
Vuole che entri solo una persona. Di riflesso, mi sgancio dalla presa.
La donna che mi precede guarda me, poi Mariangela. Esiste, sempre, il presupposto di menzogna per chi valica una linea di demarcazione tra territori.
È come al controllo bagagli degli aeroporti oppure quando ti ferma la polizia dopo una curva. Sei lì che sai che loro pensano che tu abbia qualcosa che non va, non pensi sia il loro lavoro scegliere random chi fermare. Pensi abbiano dei criteri. Algoritmi che li hanno portati a scegliere te per un controllo approfondito.
Mi chiedo perché una sola persona e non due, qual è il suo criterio. Vedo Mariangela che fa cenno di no con la testa e in inglese le dice che verrà con me. Guardo la donna, qualche anno fa avrei fatto una battuta. Avrei giocato sul territorio, rischioso, della seduzione.
Lei guarda gli altri. Come altezza sono poco sotto il suo collo. Ha la divisa chiusa fino al mento con un pile che sbuca dalla divisa. Il naso ha una punta dritta e pallida, ha piccole dune scure su una guancia che rendono il suo viso unto e lucido.
Fa cenno di no con la testa. E alza una mano, un dito, segnalando che uno solo può entrare.
Mariangela fa un passo in avanti, il militare la blocca.
Intervengo. Lo chiedo gentilmente, dico che io guido solo e che preferisco essere accompagnato, glielo dico guardandola negli occhi, cercando di fingere paura. Perché, incredibile, ma non ho paura.
La donna guarda gli altri militari, mette una mano sulla pistola per aggiustarla.
Fa cenno di sì, non c’è nessuno e non saranno due italiani a rovinargli la notte tranquilla. Ma intende che vuole un militare che ci piantoni.
Entriamo in una sala simile a quella dell’ingresso di un commissariato romano. Due militari, seduti, ci accolgono continuando a fissare i loro schermi dei computer. Macchine datate, mi sembra appartengano alla generazione di mio padre.
La sala è immobile negli anni ’70, post sovietici. Murature giallognole ingrigite circondano due scrivanie in legno lucido e sedie in gommapiuma. Intravedo, in basso dietro a uno dei militari seduti, un calendario con una ragazza ucraina in topless, un po’ come quelli Pirelli o Max di un tempo. Questo mi fa tirare un sospiro di sollievo. L’Ucraina è in guerra, ma ci sono donnine nude e uomini medi, come da noi. Mariangela e molti altri, prima della partenza, mi hanno avvisato del grado di pericolo della missione soprattutto nella città di Mykolayiv, la nostra meta finale, a pochi chilometri dal fronte.
Ma io non lo so, e vedere una donna mezza nuda su un calendario mi fa pensare che siamo tutti uguali e che andrà tutto bene.
Fuori dalle finestre il bosco oscilla per via di una brezza lieve, è scuro e le luci al neon della frontiera ne illuminano solo alcuni tratti.
Consegniamo anche a loro i passaporti, i visti, e il foglio con l’inventario degli aiuti. Uno dei due militari lo vede, lo rigira tra le mani, finge, credo, di sfilare con il dito tutti gli oggetti segnati e poi ride. Imparerò successivamente che non sono i beni di prima necessità ciò che molti ucraini vorrebbero dall’Europa.
Mariangela consegna un altro foglio, probabilmente qualche documento timbrato dal consolato italiano e rimaniamo in attesa.
Nessuno sembra guardare il numero dei posti del camper. I trucchetti funzionano una sola volta, quindi spero nessuno faccia domande.
I due si parlano in ucraino mentre, dietro a noi, un grosso militare ci tiene sott’occhio.
– Italiani? – Dice poi il militare seduto a pochi passi da me.
Annuiamo.
Si butta indietro sulla sedia, alza gli occhi al cielo e dice: – Long day. Many cars.
Sono stanchi.
I tasti dei loro computer sembrano macchine da scrivere, battono i nostri nomi e il ticchettio riecheggia nel silenzio della sala.
– Ok.
Con la mano l’uomo fa cenno di uscire, che i documenti sono a posto. Possiamo procedere.
Mariangela si incammina e usciamo dall’ufficio. Non mi ero reso conto si potesse fumare lì, non sono abituato. Sento la giacca impregnata di fumo, nessuno fumava mentre eravamo dentro. Eppure il fumo ora ce l’ho appiccicato. Tipo ricordi indelebili da lavare.
Saliamo insieme sul camper con le braccia tese in segno di vittoria, avviso gli altri di reggersi, mi siedo alla guida e metto in moto.
Ricomincia a piovere, il fango si fa subito viscoso, così mantengo la velocità minima possibile.
Arrivo all’uscita della dogana, consegno un foglio di via lasciato dai militari all’ennesimo militare. L’uomo che lo prende, di sì e no venti anni, lo guarda con disinteresse e con gentilezza ci indica la via per prendere la strada principale. Da quando c’è la guerra tutti gli uomini sotto i cinquant’anni sono arruolati. Non so se sia gratificante fare il militare per controllare foglietti. Forse è gavetta, forse non so riconoscere che per raggiungere obiettivi prefissati, la strada non è dritta alla vetta. Metto la prima ed entro in Ucraina.
Roma, 2015
Il piccolo ufficio sopraelevato è spoglio. Una scrivania, un vecchio PC, qualche quadro della gelateria degli anni passati; è tutto ciò che c’è.
Pile di documenti ai lati e un grosso ventilatore impolverato a terra che punta sull’unica poltrona presente. Non so cosa fare. È il mio secondo giorno di lavoro da Amministratore Delegato. Non ho un progetto. Dalla Corea mi chiedono un business plan con proiezione a cinque anni. A cinque anni, penso. Siamo nel 2015, fino alla chiusura di bilancio nel 2020. Io non so pianificare. Improvviso.
Accanto a me, sul muro, c’è una vecchia stampa anni ’30, raffigura La Fata Bianca. Il mio bisnonno aveva l’abitudine, a Carnevale, di regalare gelato a tutti i bambini e alle bambine in maschera. A distribuire i gelati era una ragazza mascherata da fata, vestita di bianco. Fu un’idea vincente.
Dietro di me, sento i passi metallici che salgono sulle scalette.
– Andrea Fassi?
Mi giro. La voce di una donna.
– Dica. Questi sono gli uffici.
– Sono Marianna, la giornalista del Messaggero. Ci siamo sentiti ieri.
Marianna. Sì, Marianna. Negli ultimi giorni mi hanno chiamato decine di giornalisti per sapere della vendita del Palazzo del Freddo. Perlopiù maleducati. A prescindere dalla testata, nel tono di voce avevano tutti questa urgenza di risposte a effetto, di qualche notizia familiare scabrosa.
– Dammi un po’ di ciccia sennò di che cazzo parliamo.
Che poi ne ha parlato pure il Tg5. Mi hanno detto che su FB da giorni c’è un gruppo, chiamato “Ripiamose Fassi”, di gente che ora mi odia. Credono sia stato io a vendere.
– Andrea, giusto?
Marianna è ancora lì.
Ha una canottiera bianca che le stringe il seno, pantaloni attillati su scarpe basse, ballerine. Odio le ballerine. Ho sempre pensato che uscire con una ragazza con le ballerine mi avrebbe complicato tutto. Basse, color pastello, l’opposto della sensualità, con le dita pressate dentro la punta come piccoli salami.
– Sì sono io.
– Piacere di conoscerti, sono qui per l’intervista.
– Mi dai un minuto?
Accenna un sorriso, ha le labbra sottili rosse come fragole, la pelle liscia e il viso appena rotondo. Sembra il naso sia rifatto. Non è un problema. Le ballerine sono un problema.
Anche se non siamo a un appuntamento, le trovo un ‘atteggiamento’. Un modo di dirmi, ‘qui non c’è carica sessuale, ti devo solo intervistare. Quindi stai buono.’
Solo che io non so come si fa a non abbordare una ragazza carina. Non serve per forza avere un fine, è che proprio è il mio modo.
– Certo, aspetto giù?
– No no, stai, scusa ma faccio ordine sulla scrivania così ci sediamo.
Prendo i fogli, i documenti, la pagina di giornale con su un articolo sull’accordo Fassi-Haitai. L’articolo è senza intervista però, perché non è stato autorizzato. Semplicemente ne hanno scritto. Penso sia quello l’articolo causa di tanto odio. Persino una mia zia mi ha chiamato, per dirmi – Hai detto tu ai giornalisti la cifra di vendita, non è stato carino. Non dovevi dirlo.
La presunzione di colpa nei miei riguardi c’è da sempre, per due motivi. Il primo sono i miei modi, egocentrici e urticanti, il secondo riguarda me, è una mia percezione, insomma è sempre colpa mia da quando sono nato.
– Potremmo iniziare dal senso di colpa?
– Scusa, Andrea?
– Dico, l’intervista. Potremmo iniziarla dal senso di colpa.
– Di aver venduto la gelateria?
Ecco come le notizie già sono nella mente delle persone. Non so se una giornalista di livello avrebbe osservato, prima di intervistarmi, in questo modo. Senza ancora conoscere i fatti.
– Di essere nati. Della sofferenza altrui.
Marianna scrolla le spalle. Mi guarda come se avesse sulla faccia disegnato con un pennarello rosso un punto interrogativo che le parte dalla fronte e le finisce sulla lingua.
– Puoi spiegarti?
– Accomodati.
Si muove, non riesco a vederle il sedere. Speriamo sia brava, speriamo di non aver fatto una cazzata ad accettare l’intervista.
– Dico, il senso di colpa muove le scelte delle persone.
– Ti senti in colpa?
– Da sempre, sì. Ma non ho venduto io la gelateria.
– E allora rispetto a cosa me lo dici?
Prende un taccuino e scrive a matita. Bel gesto, penso. Ha le mani con smalto nero e due anelli e un piccolo tatuaggio sul dorso della mano destra.
– Ti piacciono i tatuaggi?
Guarda la sua mano.
– Sì, questo è un ricordo.
– Amore infinito, finito?
– Amore finito.
Espiro. Dentro di lei c’è ancora qualche pezzetto di quell’amore, lo vedo.
– Il senso di colpa di avere un cognome, di non aver mai fatto davvero qualcosa di buono, e saper far credere molto bene a tutti di riuscire in tutto.
– Interessante. Quindi tu con la vendita non c’entri?
– Trovi interessante quanto ti ho detto, ma mi chiedi subito della vendita, che è quanto ti interessa davvero.
– Muove le labbra e si strofina la mano sinistra sulla gamba. Mi guarda negli occhi. Due grandi occhi blu, un colore che non amo.
– No, volevo solo capire la situazione attuale.
– Certo, immagino. No, io non c’entro con la vendita.
– E perché sei qui?
– Per non buttare nel cesso la memoria.
E poi perché ho una paura fottuta di fare qualsiasi altra cosa, perché non ho mai provato davvero a fare qualche altra cosa. Non lo dico.
– Beh, è un obiettivo nobile il tuo.
– Dici?
– Scusa eh, sei qui perché qualcun altro ha venduto l’azienda con il tuo nome, tu sei tornato per salvarla. È romantico.
– No, non lo è. Sono qui per un incrocio casuale, orribile, della vita.
– Orribile?
– Sì, orribile.
– Di cosa parli?
– Di questo non parlo. Se vuoi possiamo parlare dei progetti futuri.
– Il passato è importante, raccontami.
– Scusami, ho sbagliato ad accennare questa sensazione. Parliamo di progetti futuri.
Vedo che si irrigidisce, tira in dentro il petto. Mi sembra abituata a ottenere tutto quello che vuole, non con mezzi bassi come la bellezza, ma con la capacità persuasiva. Ma io sono ben più preparato di lei, se si finisce sul territorio della persuasione.
– Scusa scusa, ho capito. È solo bello vedere l’umanità dietro le scelte.
– Ti ho detto che non ho scelto. Per ‘umanità’ intendi un motivo per far leggere di più il tuo articolo?
– Intendo dare spessore all’articolo.
– Comunque. Non ho venduto io la gelateria. Da mesi, seguivo l’avvio di una gelateria di un caro amico, Max. La gelateria si chiama Verde Pistacchio. Una figata.
– Perché lavoravi lì e non qui?
– Perché lo spazio per me qui era limitato.
– Per colpa di chi?
– Colpa? Perché colpa? Di nessuno, di modi diversi di lavorare, di età.
Io non ho un modo di lavorare penso, io ho solo reazione e azione in base a come mi si prende.
– Sei un po’ vago.
– In famiglia è difficile lavorare. Il lavoro filtra il rapporto, male di solito.
– Uhm, ok. E da Verde Pistacchio come sei tornato qui?
– Da qualche settimana prima della vendita del Palazzo del Freddo, mi scrivevo con l’Amministratore Delegato dell’Haitai. Cercavo di carpire le loro idee, di cogliere l’opportunità di essere qui dopo la vendita, e loro facevano altrettanto con me. Un Fassi giovane fuori, un rischio no?
– Intelligente. Anche loro però. Mettere un manager coreano avrebbe distrutto l’immagine dell’azienda, immagino?
– Sì.
Ha centrato il punto, sto qua perché mi chiamo Fassi.
– Avrei voluto fare il giornalista, o scrivere. E invece…
– Ah sì?
– Sì.
Stringe le braccia e alza le spalle. Per via del movimento, il grosso seno si strizza ancora di più e riflette un profumo di pesca.
– Era questo quello che volevi fare? La giornalista?
– Sì, da sempre. Intervistavo i miei familiari, i cugini. E scrivevo.
– Bello. Mai avuto paura di fallire?
– Raramente. Tu?
– Sempre.
– E come ti senti, adesso.
– Più forte. Voglio riportare ai fasti di una volta la gelateria. Voglio sia anche per le nuove generazioni, un luogo magico, rispettato. Punterò sulla mia immagine per ricordare che la famiglia c’è sempre, dove possibile migliorerò qualche gusto di gelato e lavorerò sulla cultura. Il Palazzo del Freddo sarà un contenitore culturale.
– Beh bello, mi sembra tu abbia le idee chiare.
– A volte sì.
Le chiederei di uscire con me. Ma ha le ballerine ed è una giornalista.
– Aprirete altri punti vendita?
– Sì, certo. Molti.
– E la Corea come si pone rispetto alla produzione artigianale?
– Abbiamo franchising lì a Seoul che producono gelato italiano e artigianale. Ottantadue punti vendita. Rispettano tantissimo la nostra cultura. E io rispetterò la loro, aiutandoli a capirci per sviluppare il nome del mio bisnonno nel mondo.
– Figo.
– Sì?
– Sì.
La butto lì.
– Figo dici a me?
Lo dico bene. Giusto tono, giusto sguardo, giusta inflessione.
Le si arrossano le guance in meno di un secondo. Sorride coprendosi la bocca e lascia gli occhi fissi sui miei.
Resto in silenzio. Poi aggiungo.
– Sono dentro, ormai, dentro a questo luogo meraviglioso che amo e che odio. Renderò più ruvidi i palmi delle mie mani e farò il possibile per questa azienda.
La voce, sulla fine della frase, mi esce meno vera, più impostata.
– Renderai ruvidi i palmi delle mani?
– È un modo di dire, senti.
Allungo le mani, tiro su i palmi.
– Sfiorale.
Lei resta ferma, poi mi guarda e vedo dai suoi occhi che vuole farlo.
– Ma…
– Senti, poi ti spiego.
– Mi sa che ho capito, mani morbide vita morbida. Hai l’aria tormentata ma questo lo lascio fuori dall’intervista. Sentiamo le mani.
Allunga la mano destra, quella con il ricordo tatuato, la allunga come la mano dell’antica stampa sul muro, quella della Fata bianca.
Sfiora il mio palmo con tre dita, è morbido soffice e pulito, i suoi polpastrelli mi solleticano tutto il braccio.
La guardo, lei già mi stava guardando. In quel momento, distratto, non sento i passi metallici sulle scale. È la mia fidanzata carica di buste.