Nenè. Per tutta l’infanzia sua madre, quando non la picchiava con il bastone, la chiamava così, e anche suo fratello Paulo. L’altro, Pierre, il maggiore, l’apostrofava con epiteti quali “piattola schifosa”, “sacco di merda” o “subdola serpe”, oltre a picchiarla anche lui.
Marguerite non era considerata bella e neppure simpatica, eppure Léo, il ragazzo cinese che aveva studiato a Parigi, ricco e di quindici anni più grande, si era innamorato di lei.
Era stato un amore infelice: la famiglia di lui si opponeva perché Marguerite era una “bianca”, i familiari di lei disprezzavano “il cinese”, pur approfittando cinicamente della sua ricchezza.
Dall’Indocina la famiglia si era trasferita a Parigi; Marguerite era impiegata al Ministero delle Colonie, aveva studiato diritto, matematica (come il padre) e cominciato a scrivere.
Allo scoppio della guerra, era entrata nella Resistenza dove aveva conosciuto Francoise Mitterand e Robert Antelme, che avrebbe poi sposato.
I suoi amici più cari, Jeanne Moreau, Godard, Depardieu, Lacan l’avevano sempre chiamata Margot. Era stata Margot per molti anni, aveva scritto romanzi di successo, aveva vinto il Goncourt, si era risposata.
E aveva iniziato a bere.
“Ma perché beve?” – le aveva chiesto Bernard Pivot – “Perché mi piace”, aveva risposto lei, ed era appena uscita da una cura di disintossicazione, una delle tante, inutile come tutte.
Ora era malata, e molto stanca; con Yann Andréa, il suo ultimo compagno, ingannava il tempo giocando a domanda e risposta:
Y.A.: Che dire di te?
M.D.: Duras.
Y.A.: Che dire di me?
M.D.: Indecifrabile.
Adesso la chiamavano tutti Duras, lei compresa.
Duras e basta.
Bibliografia:
Marguerite Duras, Hiroshima mon amour, Einaudi;
Marguerite Duras, C’est tout, Mondadori.