«Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo».
Riconoscete quest’incipit? È forse il più famoso della storia della letteratura. Parliamo di ‘Anna Karenina’, di Tolstoj. Questa è una traduzione, bisognerebbe leggere il testo nella lingua originale. Analizzando la frase, però, una cosa salta subito agli occhi. C’è una ripetizione. “Ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo”.
Com’è possibile? Quante volte, da bambini, a scuola, ci è stato detto che le ripetizioni sono un errore? Che dobbiamo evitarle come la peste? E allora, come mai Tolstoj non ci ha fatto caso? Che si sia distratto? No, quell’errore è diventato altro.
E quand’è che un ‘errore’ diventa altro, ci passiamo sopra, diventa, cioè, una vera e propria questione e lezione di stile? La parola chiave è consapevolezza. Quando l’autore, cioè, è così consapevole di quell’errore che lo porta alle estreme conseguenze. E ne fa una scelta precisa. La scrittura, in fondo, vive di questo, no? Di contrasti, di estremi.
Nessuno considererebbe un ossimoro un errore. Eppure cosa succede praticamente? Quando dico: “I beati anni del castigo”, cosa accade? Che prima dico una cosa, “i beati anni”, e subito dopo, nella stessa locuzione, affermo l’opposto, “del castigo”, quasi mi contraddico.
Ecco, se ripeto così a lungo una ripetizione, quella ripetizione, può diventare altro. Così come ‘io ho’, senz’acca oppure una pagina intera senza nemmeno un segno di punteggiatura.
Ma bisogna esserne consapevoli, esercitare un tale controllo da trasformare un errore in una possibilità e un’occasione.
Che poi un errore cos’è? Per citare la Treccani è: “L’atto o l’effetto di allontanarsi, col pensiero o con l’azione, dal bene e dal vero”.
E allora potremmo dire che l’unica regola che in letteratura non si può mai trasgredire, l’unico errore da non fare mai, è proprio questa: smettere di dire tutta la verità su noi stessi e sul mondo. Per quanto dura sia e per quanto male faccia.
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