Era una fredda mattina di gennaio del 1874, non era passato neanche un anno dalle esequie monumentali di Manzoni e Milano si preparava a salutare Giuseppe Rovani, scrittore scapigliato e gran viveur appena spirato, a cinquantuno anni, nella Casa di Salute a Portanuova.
Carlo Dossi era stato tra i primi ad arrivare e osservava il via vai di amici e conoscenti, indaffarati a organizzare il funerale.
Seduto in un angolo, silenzioso e addolorato, Dossi ripensava ai tanti momenti trascorsi insieme all’amico. Le serate in osteria, “la casa di chi non ce l’ha”, che diventava quasi un’aula d’università quando c’era Rovani a declamare i versi di Omero o leggere Manzoni, con una voce profonda che incantava tutti. Le passeggiate per Milano, che Rovani conosceva come pochi, da Porta Ticinese al Lazzaretto, dal Naviglio di Porta Romana a San Marco o a Santa Maria delle Grazie, ed erano aneddoti e curiosità inediti che regalava a tutti con generosità.
Negli ultimi tempi lo scrittore, che mangiava pochissimo e aveva sempre nutrito un grande amore per l’alcol, beveva l’assenzio a bottiglie. Una sera, in un caffè, un cameriere glielo negò, dicendogli che era “per il suo bene”. Rovani lo fulminò con lo sguardo e proferì: Preferisco l’odio che mi rispetta all’amore che mi insulta!
Grande melomane, adorava Rossini che una volta, da ragazzo, aveva inseguito per le vie di Milano, fantasticando sulla grandezza del suo idolo e, dopo un lungo tragitto, si era ritrovato sulla porta di un famoso bordello nel quale aveva visto sparire il compositore.
La passione per la musica era pari a quella per la Marchesa Villani, sua amante storica, e fu proprio alla Scala che una sera Rovani aveva schiaffeggiato il marito di lei, uomo meschino e vile, davanti a tutto il parterre.
Un tramestio e un vociare di persone strappò Dossi dai suoi ricordi: era arrivato lo scultore che avrebbe fatto il calco del viso del morto, come si usava all’epoca, qualcuno aveva portato dei fiori.
Dossi uscì all’aperto. Adesso gli tornavano in mente certe frasi di Rovani divenute famose, le battute, i soprannomi con cui fotografava le persone, rivelatrici della sua intelligenza acuta venata di sarcasmo. Certe volte, però, di fronte a una persona timida o disarmata, Rovani mostrava una gentilezza d’animo che rivelava la sua anima nobile.
“Peppino” non aveva mai piegato il collo, era morto povero, senza chiedere mai, e questo gli faceva onore. I suoi detrattori, perbenisti che lo odiavano per una battuta o un soprannome irriverente, quando lo avvistavano per strada, malfermo sulle gambe e in preda all’alcol, gli gridavano: Vergogna!
“Non ci accorgevamo che la vergogna era la nostra, non la sua”, pensò Dossi allacciandosi il cappotto, adesso s’era levato un vento freddo che sapeva già di neve.
Bibliografia:
Giuseppe Rovani, Cento anni, Rizzoli;
Carlo Dossi, Note azzurre, Adelphi.