Il giardino di George Bernard Shaw

“Un pruno mai stato buono a niente, faceva frutti duri come sassi”

L’immaginazione gioca brutti scherzi, col risultato che mi porta a Ayot St Lawrence, villaggio dell’Hertfordshire, a venticinque miglia da Londra, in una grande villa di mattoni rossi, con il battente d’ottone sulla porta d’ingresso: una ridente maschera del proprietario, con un copricapo da cavaliere. L’atrio è spazioso e luminoso, a una parete è accostato il pianoforte verticale Bechstein con una partitura di Beethoven aperta sul leggio, tre sciarpe di lana sono accuratamente piegate in un vaso sopra il pianoforte, esattamente come le lasciava dopo una passeggiata, i piccoli guanti sono al loro posto nel cassetto, due paia di un modello speciale, sferruzzati dalla segretaria Blanche Patch, indossati quando scriveva a macchina.

Non esiste al mondo uomo più ordinato di George Bernard Shaw, la casa è un museo, tutto è tenuto come in un santuario. Sull’attaccapanni accanto alla finestra sono appesi quattro vecchi feltri e un soprabito irlandese di tweed a quadri che conserva la forma alta e sottile di Shaw, la poltrona a rotelle è rivestita di tessuto cordonato color nocciola. Dall’atrio centrale si aprono tre stanze e lo scalone ricoperto di un tappeto verde pallido, da cui la mattina scendeva a colazione cantando come un ragazzo, con la sua bella voce. Le finestre sono velate da tendine lucide bianche a roselline chiare, confezionate da Alice Landen, la fedele governante, per rallegrare la casa che ridendo definiva: “ammuffita”. In un angolo è stato ricavato un piccolo guardaroba a muro, lindo, contenente altri cappelli e soprabiti, compreso un originale berretto a quadri appeso a un piolo, e una fila di scarpe perfettamente allineate. La sala da pranzo è inondata di sole, tutto brilla e risplende di pulizia. Sulle pareti sono appesi: un ritratto di Shaw di Augustus John, le pergamene miniate con la nomina di Shaw a cittadino di Dublino e del Borgo di San Pancrazio e una foto di Shaw sugli scalini di casa, curvo e arcigno sul bastone dal pomo d’avorio, come nell’atto di scacciare qualche visitatore. Nello studio campeggia la grande e ordinata scrivania, con le due macchine da scrivere, le pareti sono ricoperte di libri fino al soffitto e i cassetti etichettati a lettere cubitali. All’angolo sono appese due macchine fotografiche, era un appassionato fotografo, e una foto della vecchia Rolls Royce, che prestava alla governante per far spese in città. La casa non è dotata di termosifoni, Shaw odiava il riscaldamento centralizzato. Sopportava solo il caminetto, la stufa nell’atrio e qualche stufetta elettrica. Sullo schienale del divano di vimini a cui sono addossati dei cuscini verdi, è ripiegata una coperta di pelliccia. Shaw amava stendersi, dopo il lavoro.

Il parco che circonda la villa degrada in terrazze erbose fino alle bordure di cespugli fioriti ed erbacce, lasciati crescere selvaggi, in fondo la capanna di Shaw è coperta di agrifoglio. Il giardino è esposto al sole, carico di vento e di silenzio, nell’orto ancora crescono, in filari, verdure e ortaggi, indispensabili alla sua dieta vegetariana. A lato, si nota la serra con le iniziali sue e della moglie, incise sul vetro, incorniciate da quadrifogli, l’aiuola di fragole e il pruno che stava potando quel giorno quando cadde e si ruppe il bacino. “Un pruno mai stato buono a niente, faceva frutti duri come sassi”. Il capanno è una piccola baracca di tavole di legno inchiodate, la porta è vetrata, il silenzio assoluto. La poltrona di vimini con i cuscini gialli è accanto al tavolo coperto da un vecchio tappeto rosa, con sopra, disposti in ordine meticoloso: carta assorbente, matite, una boccetta di colla, carta da scrivere contenuta in un faldone, una scimmia di ceramica gialla e un calendario. Una branda è attaccata a uno scaffale di libri, appesi a un piolo: un berretto, un vecchio impermeabile e un lungo grembiule azzurro da giardiniere. Era attaccatissimo alle sue abitudini. “Tutte le sere della sua vita si è messo l’abito nero per cenare”. Dopo cena suonava al pianoforte Beethoven e Mozart.

Negli ultimi anni, sembrava l’incarnazione di uno dei pedanti personaggi che con meravigliosa sagacia e umorismo ha tratteggiato, talvolta sbeffeggiandoli. Mentre passeggiava nel giardino a un tratto cambiava idea, arrivava a un cancello all’angolo, usciva nel viale e se ne andava solo per i campi, specialmente se era venuta della gente a cercarlo. Come non pensare al suo Pigmalione!

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