La camera di Marcel Proust

“e ora il mio cuore è vuoto, e la mia camera, e la mia vita”

Scrive alla madre lunghe lettere notturne, una parola dura o un rimprovero di lei bastano a farlo precipitare nel più profondo sconforto. Sensibile, malato d’asma con frequenti attacchi accompagnati da principi di soffocamento, richiama su di sé sollecitudine e attenzione con una tenerezza filiale che la debolezza fisica amplifica, e un’urgenza che pian piano si trasforma in nevrosi. Proust in ogni casa dove si trasferisce, ricrea la sua camera di ragazzo. Finché vive con i suoi scrive di sera, sulla tavola della sala da pranzo, la madre seduta sulla poltrona accanto, la stufa costantemente accesa. La scrittura lo assorbe precocemente, ma le contrappone sempre il timore di non avere ingegno, né sufficienti doti. Quasi a reazione della sua debolezza fisica, per la quale durante l’anno di volontariato militare viene classificato al reggimento sessantatreesimo su sessantaquattro allievi, si distingue nel modo di vestire, come nel corteo nuziale di Elaine Greffulhe, quando appare con il cappello a bombetta e la redingote grigia con il risvolto, differenziandosi da tutti gli altri invitati che indossano il cappello a cilindro e l’abito rigorosamente nero; fa sfoggio di guanti color perla che dimentica di proposito in qualche salotto mondano, per poi chiederne la restituzione e mandarne in cambio anche una dozzina. Porta il fiore all’occhiello, lascia mance sproporzionate, si avvicina ai soci del Jockey Club alla conquista della società aristocratica con un complesso di modi da dandy che fanno coniare agli amici il termine “proustifier”.

Dopo la morte della madre scrive: “e ora il mio cuore è vuoto, e la mia camera, e la mia vita”. Nella solitudine trova il periodo più fecondo. Un’amica di vecchia data, gli cede un appartamento in Boulevard Haussmann, di cui però Proust usa solo una stanza che fa rivestire di legno, vi colloca la stufa e il letto. E un tavolino di giunco “La Chaloupe”, zeppo di penne, carico di libri e quaderni disposti accanto all’inalatore per suffumigi e alle fialette che sprigionano vapori nauseanti. Le visite degli amici diventano sempre più rare, chiede loro di procurargli fotografie di persone conosciute, rimane a letto giornate intere, scrive e annota. Quando acquista dei libri, li spedisce a conoscenti perché li conservino, certo che in casa si smarrirebbero. Se ha qualche dubbio appunta febbrile la domanda su un biglietto, lo manda anche in piena notte agli amici, esigendo una risposta immediata. Non cessa del tutto di frequentare i salotti di Parigi, ma bussa talvolta alla porta alle tre del mattino e alle prime ore dell’alba. Invita a cena gli amici al Ritz, si presenta vestito con la pelliccia, e camicie dai colli e dai polsini inamidati da cui spuntano lembi di fazzolettini.

Dopo la guerra, convinto di essere povero e certo di avere poco tempo ancora da vivere, si rinchiude in una stanza al quinto piano di Rue Hamelin. Deciso a concludere l’opera, si sottopone a privazioni e digiuni tremendi, ritenendo che le asprezze giovino anche alla salute fortemente compromessa. Ormai non riceve più nessuno, gli amici rimangono sulla soglia, quando compaiono il fratello o il medico chiede loro di andarsene. Tollera solo la presenza di Céleste, assistente, infermiera, segretaria, che lo assiste fino alla morte.

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