Nel 1943 Odysseas Elytīs viene ricoverato in un ospedale a Giannina, nella periferia dell’Epiro. Ha contratto il tifo, tutti i referti lasciano intendere che non si rimetterà più: il tifo, prima della scoperta degli antibiotici non ha altra cura se non nella risposta del sistema immunitario. Immobilizzato nel letto, con il ghiaccio sulla pancia, alimentato con una tazza di latte o del succo d’arancia, deve sopportare la febbre a quaranta per interminabili giorni. Capita che si trovi nel pieno d’una crisi proprio nel momento in cui i tedeschi sferrano l’attacco. Il suo letto è situato accanto alla finestra, ogniqualvolta vien dato l’allarme, tutti gli ammalati insieme ad infermiere e medici si precipitano di corsa ai ricoveri. Prima che tutti abbandonino la corsia, vengono spalancate le finestre per evitare che, rompendosi, gli lancino addosso le schegge. Rimane tutto solo nella corsia vuota, d’un tratto gli sembra immensa, con i letti disfatti, i giornali e i sacchi in disordine: la visione gli ricorda Pompei, immortalata in una quotidianità troncata bruscamente, colta in una fissità che ne conserva la memoria. Permeato da una strana calma, ascolta le esplosioni che vanno aumentando e si avvicinano. Invisibili mostri ronzano in alto, sganciano morte, ed Elytīs, immobile, con la schiena piagata, scruta un pezzo di cielo dalla finestra aperta. In quel momento sente risvegliarsi il poeta che è in lui, lo soccorre l’idea di un ‘opera che contenga tutte le poesie che vorrebbe ancora scrivere, lo tiene vivo come un’immagine sacra, ne sfoglia le pagine con la mente. Le bombe e la paura della morte si dissolvono. Si sente invulnerabile, indistruttibile. Aggrappa le unghie al lenzuolo, si accorge che sta delirando.
Per giorni perde completamente la parola, avverte solo la presenza di un lume che spostano davanti agli occhi per verificare se è in grado di seguirlo. Riprende coscienza durante una notte, quando lo vengono a prendere per trasportarlo nello stanzino accanto che contiene due soli letti, e che subito riconosce come il luogo dove isolano i moribondi. Trova l’energia di opporsi, gli si scioglie la lingua, inizia a protestare, grida, colpisce persino una delle infermiere: prova simpatia per lui e cerca con le lacrime agli occhi di convincerlo che stanno agendo per il suo bene. “Ah, no; questo no, non fatemi questo”. Rimane sveglio tutta la notte, veglia per paura di essere trasferito. “Montavo la guardia al mio posto tra i vivi”. Il giorno seguente quando vede avvicinarsi un prete con il calice in mano, gli inveisce contro, urla tanto che il prete se la dà a gambe e tutti i ricoverati scoppiano in una risata. Elytīs non riesce a trattenersi e piange: “Era la prima volta in vita mia che piangevo”. I medici gli si riuniscono attorno, e alla fine uno di loro gli fa un’iniezione per sedarlo. Sprofonda nel sonno per molte ore e il giorno dopo si risveglia quasi sfebbrato. “Il libro che avevo sognato, forse avrebbe potuto essere fatto”.
Non scriverà mai quell’opera ideale. “Ma che importa? L’averlo sperato, mi aveva mantenuto in vita”.