La minuscola casa dove per quattro anni abitò Edgar Allan Poe, al numero 3 di Amity Street, a Baltimora, spicca fra le costruzioni ottocentesche basse e dalle facciate piatte, dipinte in varie tonalità di rosso, dall’arancione al violetto, dallo scarlatto al vinaccia. Mario Praz la descrive in mattoni rossi con una porta bianca, un piccolo battente d’ottone, e una finestra al pian terreno, due finestre al secondo, un abbaino sul tetto.
Poe visse di stenti in quegli anni con zia Clemm che chiamava affettuosamente “Muddy”, sorella del padre, David Poe, morto quando Edgar era ancora fanciullo e con la figlia di lei, la cugina Virginia, della quale s’invaghì, irretito da una morbosa tenerezza. La sposò nel 1835, a ventisei anni, quando Virginia era appena tredicenne. I lavoretti di cucito della zia erano l’unica fonte di reddito. I guadagni di Poe si ridussero al premio di cinquanta dollari del “Baltimore Saturday Visiter” per Manoscritto trovato in una bottiglia e a un altro di venticinque dollari per la poesia sul Colosseo.
Deteriorati i rapporti con il padre adottivo, John Allan, per la vita sregolata che condusse all’università, presto abbandonata, e i frequenti debiti di gioco che questi fu costretto a saldare, Edgar credette di poter essere perdonato, e che i suoi modi eleganti, le parole gentili, la voce suadente, e gli occhi grigi e penetranti intercedessero per lui, fino all’arrivo a Richmond, dove si recò alla notizia del peggioramento di Allan. Ebbe allora la chiara consapevolezza d’essere caduto definitivamente in disgrazia. Allan, paralizzato nel letto, lo coprì d’insulti, e non lo nominò neppure nel testamento. Ridotto in miseria, nel 1834 si rivolse a John Pendleton Kennedy, uno degli uomini più facoltosi di Baltimora e uno dei pochi ammiratori, chiedendo prima un prestito, poi una raccomandazione per un impiego. Qualche mese dopo ricevette da Kennedy un invito a cena, che Poe declinò con una lettera, confessando di non poter accettare per “ragioni della natura più umiliante nella mia apparenza personale”. Non aveva un abito decente con cui presentarsi. Kennedy, scoperto lo squallore delle sue condizioni, lo sostenne economicamente, gli procurò dei vestiti e persino un cavallo per praticare l’esercizio quotidiano ritenuto un tempo indispensabile a un gentiluomo. Lo presentò al direttore del “Southern Literary Messenger” di Richmond, con il quale Poe avviò una collaborazione e che pubblicò i suoi racconti. Tuttavia, per il forte esaurimento nervoso e l’indebolimento fisico, Poe aveva già iniziato a far uso di oppio, ricorreva frequentemente a stimolanti e occasionalmente all’alcool; il suo dottore andava dicendo che solamente un viaggio per mare e l’effetto benefico dell’aria pura avrebbero potuto rigenerarlo e dargli la forza di superare le dipendenze. A Baltimora lo raccattarono come uno straccio in fin di vita, in preda a delirio etilico e da abuso di oppiacei, con la canna rossa di Malacca accanto. Un manipolo di farabutti l’aveva ubriacato e circuito portandolo in giro nei seggi elettorali, facendolo votare per il proprio candidato.
In questa strana e per certi versi implacabile coerenza del destino, Poe pare piombare nell’atmosfera angosciante e cupa di uno dei suoi indimenticabili racconti.