Emilio Cecchi ricorda l’incontro con William Faulkner durante un ricevimento a Roma, dopo l’assegnazione del Nobel. Gli ospiti si stringevano attorno per rendergli omaggio, mentre Faulkner, in piedi, appoggiato a un tavolino, trasmetteva un’impressione di fragilità, svilito da un vestito marrone troppo piccolo e stretto, con lo sguardo lontano da quel mondo che sentiva estraneo. Nato nel Mezzogiorno d’America, nella terra del Mississippi che fa da sfondo ai suoi personaggi e ai romanzi, dalle cittadine a vocazione agricola con le residenze di legno dei vecchi coloni, le capanne dei neri che lavoravano nelle piantagioni o nelle segherie, le case d’appuntamento frequentate da politici e gangster, e il puritanesimo esasperato dai conflitti sociali, non si sentiva a suo agio tra la gente, nonostante la spontanea e calda accoglienza. In quella tenuta con un che di inconsistente e di striminzito, sembrava solo una caricatura dello scrittore fotografato nelle cerimonie del premio, in abito di gala e col portamento solenne, coronato dal sorprendente contrasto fra la folta capigliatura canuta e le sopracciglia nere. D’italiano non sapeva dire due parole, ma amava passeggiare per Roma, città che visitò più frequentemente da sceneggiatore, cogliendo gli aspetti della vita quotidiana. Non aveva interessi marcatamente turistici e si sorprendeva sempre che tutti in Italia cercassero di aiutarlo a gesti quando non riusciva a trarsi d’impaccio da solo. Era solito ripetere che in Francia chi non lo capiva non si interessava minimamente a lui, sebbene da tempo avesse preso confidenza con la lingua; a lungo vi era rimasto durante la prima guerra, ricoverato in ospedale dopo un incidente di volo con l’aviazione canadese nella quale si era arruolato.
Da giovane esercitò diversi mestieri, imbianchino, falegname, contadino, impiegato all’ufficio postale. “Non ero troppo seccato quando gli editori mi restituivano un manoscritto. Perché ormai ero ancor più corazzato”. Iniziò a pensare di potersi mantenere scrivendo, nonostante l’indifferenza con cui erano state accolte fino ad allora le opere e si dedicò a un nuovo racconto, dopo essersi informato sui gusti del pubblico e le tendenze correnti: “scelsi quella che mi sembrava la giusta risposta. Inventai il più orripilante racconto che mi fosse possibile escogitare”. Lo inviò a Smith, che aveva appena pubblicato in perdita “L’Urlo e il Furore” e che gli rispose: “gran Dio non posso pubblicare una cosa simile. Finiremmo tutti e due in galera”. Faulkner si convinse a cercare di nuovo un altro lavoro. Nella prefazione a “Santuario” scrisse che venne assunto nel turno di notte per il rifornimento di carbone al fuochista in una centrale elettrica. Nella città addormentata c’era meno bisogno di vapore, a intervalli poteva riposarsi e dedicarsi alla scrittura, ma non è escluso che abbia esagerato nei toni confessando gli stenti di un periodo difficile, per accattivarsi i favori del pubblico. All’ultimo giro di bozze, insoddisfatto, decise di riscriverlo completamente. “Quando Smith mi mandò le bozze di Santuario, vidi che era così tremendo che c’erano da fare due cose soltanto: stracciarlo o rifarlo. Così lacerai tutte le bozze e riscrissi il libro… ce la misi tutta e ora spero che lo comperiate e ne parliate agli amici e che essi pure lo comperino”. Fu il primo libro di Faulkner ad avere successo.