La capretta di Fosco Maraini

Dov’era Kyoto, la città grande e bella, cosparsa di ville, giardini e i templi laminati d’oro? L’ultima volta che l’aveva vista era un cumulo di cenere e rovine

Ci aveva pensato a lungo, Fosco Maraini, nelle notti fredde e senza sonno, in preda ai crampi della fame e della dissenteria nel campo di prigionia di Nagoya.

Non ce la faceva più a vedere sua moglie Topazia, nata principessa Alliata di Salaparuta, sfinita e quasi senza capelli, le sue piccolissime bambine Dacia, Yuki e Toni affamate e spaventate, non sopportava più di vedere vessati e umiliati i suoi compagni, lo striminzito gruppo di italiani, professori ingegneri e diplomatici riuniti dal caso ai confini estremi dell’Asia, e divenuti prigionieri dei giapponesi, all’indomani dell’8 settembre, per non aver giurato fedeltà alla Repubblica di Salò.

Per sfuggire all’orrore del presente Fosco si rifugiava nei ricordi più belli: la casa grande e antica di Firenze, il samovar d’argento lucidato a dovere ogni volta che si attendevano ospiti, i biscotti al burro, i butter scotch che la mamma riportava dai suoi viaggi in Inghilterra. Ancora ricordava il piacere intenso di quella sera che lo fecero salire sulla terrazza per guardare dentro a un grande telescopio, aveva visto Giove, un’enorme zucca gialla e i suoi satelliti, due ceci, uno d’oro e l’altro d’ombra.

La prima spedizione con Giuseppe Tucci in Tibet, lo studio appassionato per il popolo misterioso degli Ainu, il suo amore per il Giappone che sembrava ricambiato. La guerra, però, aveva stravolto tutto: dov’era Kyoto, la città grande e bella, cosparsa di ville, giardini e i templi laminati d’oro? L’ultima volta che l’aveva vista era un cumulo di cenere e rovine.

Quella mattina Kasuya, il più intelligente, il più temuto dei carcerieri era di pessimo umore: i giapponesi stavano perdendo la guerra e lui, con fare sprezzante, si accaniva contro i gaigjin italiani, chiamandoli traditori e bugiardi.

Maraini afferra una piccola accetta, si taglia di netto la falange del mignolo sinistro e la scaglia contro il suo aguzzino. Per la cultura giapponese il gesto ha una triplice valenza simbolica: ti macchio col mio sangue, quindi ti infetto, sei tu che hai provocato questa reazione e io non ho paura di te.

Ansante e con l’accetta ancora in mano, Fosco aveva urlato: «Itarya-jin uso tsuki de wa nai», gli italiani non sono dei bugiardi!, in faccia al poliziotto con la sua divisa bianca macchiata di sangue.

La rappresaglia arriva subito e Fosco viene massacrato di botte, ma dopo qualche giorno viene consegnata agli italiani una capretta il cui latte prezioso impedirà loro di morire.


Citazioni tratte da Case, amori, universi, di Fosco Maraini, Mondadori.

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Loredana Germani

È tra i fondatori della Scuola di scrittura creativa Genius. Dopo gli studi in Storia e Letteratura italiana, scrive diversi racconti autobiografici e articoli in cui descrive incontri con autori. Ha curato l’antologia di racconti A Roma San Giovanni e tiene la rubrica Vita da scrittore sulla rivista letteraria Dentro la lampada, nella quale narra opere e aneddoti di grandi personaggi letterari.

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