Catturato dai genovesi su una galea veneziana che ha armato per lo scontro navale, un prigioniero di quasi otto secoli fa detta le sue note di viaggio nella cella che per incanto si tinge dei colori di un mondo mai visto. Rustichello da Pisa, suo compagno di prigionia, ascolta col fiato sospeso e trascrive man mano in lingua francese i ricordi del mercante partito da Venezia a diciassette anni con il padre e lo zio.
Rustichello che scrive versi d’amore non ha mai sentito narrare di pagode, fiori strani e di bellezze nel cammino sulla Via della Seta e si assicura non si tratti di un imbroglione. Chi dice di aver affiancato gran signori e governato città in un mondo mai conosciuto da alcun cristiano rievoca la sua familiarità con il Gran Khan Kublai con tono onesto e scrupoloso e dà alle parole il giusto valore senza cedere a infiorettature.
Marco Polo ha sperimentato l’esistenza di tesori e civiltà sconosciute eppure non ha mai perso equilibrio e capacità di giudizio. Non smarrisce lo sguardo meticoloso e notarile degli amministratori veneti, sente di rappresentare la chiesa di Roma e la latinità, compito assolto come un carico personale che sa custodire e riportare intatto dopo 24 anni. Non ha interesse a ingannare. “Di quest’isola vi conterò tutto il vero” annuncia parlando di Giava e per Zanton, città portuale sullo stretto di Taiwan, “io Marco Polo tanto vi stetti che bene lo saprò contare per ordine”.
La relazione del viaggio traccia un chiaro itinerario: dalla baia di Scandum, punto di partenza delle carovane per l’oriente, i fratelli Polo attraversano l’Armenia e la Persia, scendono ad Hormuz, alla foce del Golfo Persico, con l’intenzione d’imbarcarsi e raggiungere la Cina per mare. Temendo assalti corsari, preferiscono continuare sulla via di terra, rimontano quindi l’altipiano di Kirman, fino all’aspro e freddo valico del Pamir, a 4000 metri per sboccare nella valle del Tarim. Dopo aver attraversato l’immenso deserto di Gobi, giungono finalmente al Catai, la Cina settentrionale.
Marco Polo occupa posizioni di fiducia, di ambasciatore ed emissario speciale alla corte del Khan che prima di quei mercanti veneziani “non aveva mai più veduto niuno latino”, lo segue nelle cacce e nella residenza estiva mentre i fratelli Polo vengono mandati a sovrintendere alla costruzione dei tre mangani da guerra atti a scagliar pietre di trecento libbre che hanno suggerito per espugnare Siangyang, città fortificata. Il Khan si circonda di astrologi, giullari, indovini, fa costruire l’osservatorio astronomico di Pechino, chiama matematici persiani per compilare un calendario.
Marco Polo registra fedelmente tradizioni e usi e li rispetta, scopre l’isola dei Maschi e l’isola delle Femmine, assiste a banchetti nuziali celebrati per giovani morti perché una volta ricongiunti alla terra siano sposi nell’aldilà, conosce gli adoratori del fuoco, i cacciatori di ombre, vede i cibi dei morti, i tatuaggi degli uomini, le monete di porcellana, ma non è indifferente a costumi che offendono i suoi principi e talvolta ne è scosso. A Cangiù si scandalizza che si combatta slealmente, a Tana lo disgusta che il re si metta in combutta coi pirati. A Maabar, in India, è colpito da una giustizia troppo severa, ma ammira il fatto che il re non si sottragga.
Rustichello non conosce che brevi storie di paese e tutto quel milione di fatti lo sommerge. Gli piacerebbe veder passare nel cielo le cinque specie di gru con le loro tinte, e le coturnici e i grifalchi onorati, o assistere ai prodigi di fattucchieri e prestigiatori tibetani. Immagina navi corsare che depredano, guerre sotto nuvole di frecce fra fragori minacciosi di timpani e barriti di elefante, interi eserciti che ferocemente combattono l’uno contro l’altro come si combattono in ogni tempo gli uomini del mondo.
Nel viaggio di ritorno i Polo si imbarcano su giunche a quattro alberi armate di seicento marinai per riapprodare ad Hormuz sul golfo Persico. Proseguono per la via di terra fino a Venezia dove giungono carichi di pietre preziose cucite sotto le tuniche.