Per i coniugi Balzac e i loro congiunti la peggiore delle sventure è il trovarsi con meno soldi in tasca, mentre la più grande felicità sta nell’assicurarsi lauti proventi. Felicità che si fa desiderare per cui gli eccessi d’avarizia sono all’ordine del giorno.
Honoré de Balzac cresce alla scuola dell’indigenza, dell’economia di “sussistenza”, del regime di “spese così nettamente determinate” che un vetro rotto, uno strappo ai pantaloni comportano inasprimenti e torture per un mese. Si deve far bastare venti soldi al giorno: diciotto per le spese fisse e due per quelle impreviste. Invidia i compagni tirati su meno spartanamente, non svezzati con le privazioni. A Tours dove vive, la leccornia che è vanto e delizia di grandi e piccoli è un particolare paté, una celebre marmellata artigianale di salumeria, Les Rilettes. Da giovane non ha mai avuto la gioia di spalmare quella bruna conserva su una fetta di pane. Ha di natura un appetito eccellente, ma spesso per pranzo deve limitarsi alla frutta e al caffè. Per ridurre a dieci centesimi al giorno la spesa della lavandaia e della stiratrice non può portare camicie di cotone, ma si accontenta di camicie di flanella, per conservare lo stesso paio di calze per un certo tempo, usa le ghette. Gli rimane l’incubo della strada polverosa e della più leggera macchia di fango o di uno schizzo sugli indumenti. Mantiene decente lo stato del cappello fino a che “la sua esistenza artificiale giungeva al punto estremo: era ferito, precipitato, finito: un vero cencio, degno rappresentante del suo padrone”. La casa della famiglia Balzac è simile a un’orrenda stamberga. Conserva la memoria olfattiva dell’umidità e del salnitro, di quegli antri dove persino l’odore del latte traboccato sul fornello è “un odore di più, che si sente poco malgrado la sua acredine nauseabonda”. Gli ripugna toccare la ghianda unta con cui termina il cordone del campanello e le pareti coi fiorami da parati, giallastri ed escrescenti, e guarda con disgusto le porte annerite dalla vernice grossolana. Constata come la miseria “sia il più attivo di tutti i dissolventi sociali”. Nell’intimità delle pareti domestiche, “in seno alla famiglia” e nella cerchia consueta del vivere, si sente un metallo deprezzato, “smonetato”. L’ossessione per il denaro gli rimane impresa come un marchio: più forte di lui è la mania di stimare le sostanze di chi frequenta e di tirar le somme con gusto e concentrazione, obbedendo al bisogno di considerare e valutare ogni situazione in cifre e in moneta.