Il palazzo dei mosaici è il primo romanzo di Paolina Russo, pubblicato in questo tempo di quarantena da I. Edizioni. Andrea Carraro e io abbiamo accompagnato Paolina, come facciamo di solito con molti autori, nella scrittura di questo che dovrebbe essere il primo volume di una trilogia, una storia famigliare dai tratti autobiografici, sorprendente nell’invenzione (la voce narrante è quella di Olimpia, appena defunta, che dialoga con la nipote Oli, l’unica che può sentirla) e profonda nell’esplorare tematiche anche dure, che però vengono affrontate con una leggerezza impegnata, che è l’unico modo che trovo per descrivere lo stile di questa sua prosa. Mi è sembrato naturale intervistarla.
Nel tuo romanzo la voce narrante, senza dubbio inconsueta, è quella di una nonna morta che comunica con la nipote. Quando l’hai scritta, hai pensato alla voce di qualcuno che conoscevi?
L’idea era quella di dare voce a mia nonna che è impazzita e poi morta senza essersi potuta esprimere rispetto a quanto le era accaduto. Ho scoperto, solo a metà dell’opera, che la voce di mia nonna somigliava molto a quella di mia madre nei suoi ultimi anni di vita, seppure i loro vissuti fossero molto diversi e lontani fra loro.
Alla fine del romanzo ho addirittura pensato che la voce di nonna Olimpia potrebbe essere anche quella di altre donne che conosco e non conosco.
È una voce femminile che si può trasporre, mutatis mutandis, in quella di altre donne, anche se di cultura e di epoca diverse da quella del romanzo.
Secondo te c’è un’unione particolare tra le donne di una famiglia, anche così diverse per età?
Sì, lo credo fortemente. Più in generale, un’unione di ‘anime’ non teme il divario generazionale. In particolare, la comunicazione fra nonni e nipoti può essere più diretta, rispetto a quella con i genitori. E’ una relazione affettiva molto più libera, meno repressiva, e direi anche più dalla parte dei bambini.
I nonni riescono a colmare quei vuoti affettivi che i genitori inesorabilmente possono creare.
In questa storia gli uomini non ci fanno una bella figura, c’è il senso di una mancanza di comunicazione tra due universi, quello maschile e quello femminile. È così, secondo te?
È così secondo la mia esperienza con il mondo maschile, sin da piccola. I personaggi maschili che racconto nelle loro debolezze non li ho inventati, sono realmente esistiti. Secondo me il mondo maschile non è solo quello che descrivo, ma quella cultura mi ha dato un imprinting così forte che spesso ho creduto che lo fosse.
Di questo sono dispiaciuta.
Tutta la storia si svolge intorno al Palazzo dei Mosaici, è una costruzione che esiste davvero?
Sì, il palazzo dei mosaici è stato costruito per volontà di mio nonno, che desiderava unire la grande famiglia.
La grande cucina con il lungo tavolo rosso furono progettati per poter accogliere tutta la famiglia nei pranzi domenicali e durante le festività.
Se quel luogo è esistito, è grazie a mio nonno.
Si tratta di una tipica vicenda famigliare, narrata con un tono quasi da commedia, ma contiene anche momenti duri, sgradevoli. Ti è costato scriverli?
Moltissimo. Spesso ho dovuto interrompere la scrittura per il dolore che provavo. Così ho scoperto che una grande parte di me era rimasta lì, dentro il palazzo.
Riaprire la memoria mi è costato. La mia è una scrittura evolutiva, gli anglosassoni direbbero “di processo”, nel senso che a mano a mano che scrivevo, riaffiorava il mio passato.
Prima di pubblicarlo, hai fatto circolare il romanzo tra le persone della tua famiglia o l’hai tenuto per te?
Nella mia famiglia ho fatto leggere le bozze a mio padre e lui ha avuto una duplice sorpresa, sia per le cose che non immaginava mi fossero accadute, sia per aver ritrovato esattamente il clima caratteristico della famiglia di mia madre, che lui aveva amato moltissimo sin da ragazzo, frequentando zio Lucio, fratello di mamma.
Non credeva che io potessi dipingere così bene l’atmosfera della grande famiglia di mia madre.
Ci sono degli scrittori che ti hanno ispirato nella stesura di questa storia? Chi sono i tuoi autori preferiti?
Non ci sono autori a cui mi sono ispirata. Il mio è stato un viaggio intimo nella mia infanzia e ho scritto di getto.
La mia scrittrice preferita è Jane Austen, che ho studiato a scuola a sedici anni, quando vivevo a Londra. Amavo il suo modo di porre le questioni che trattava e soprattutto concordavo con la sua visione del mondo.
Negli anni ho amato scrittori come Albert Camus, Andrè Gide, Isabel Allende, Marguerite Duras, Toni Morrison, ma Jane Austen mi è rimasta dentro.
Questa è anche la storia di un lungo distacco tra la nonna Olimpia e sua nipote, hai mai avuto la sensazione che le cose che narravi fossero vere, cioè che a chi muore venga davvero concesso del tempo per cercare di “rimettere a posto” qualcosa nella sua vita?
Questi sono due temi importanti, il primo, quello del distacco, è un po’ il dramma della mia vita: non so distaccarmi dalle persone e momenti che amo, e anche dai luoghi che lascio dopo una breve vacanza. Sono incapace di salutare un luogo senza piangere. Credo che questa mia difficoltà sia emersa nel separare Oli dalla nonna.
Il secondo, quello del tempo concesso alle persone appena morte per sistemare qualcosa nella loro vita, non so se proprio in questi termini, forse ho solo voluto dare una possibilità di giustizia a mia nonna, anche se in modo fiabesco. Certo è che io ho spesso sentito la presenza di persone morte che mi mandavano dei messaggi, anche attraverso i sogni.
Ho sentito la presenza di mia nonna e di mia madre subito dopo la loro morte, ho sentito che svolazzavano nelle camere di casa mia.
Credo che una forte energia dei morti rimanga nei luoghi e nelle persone a loro vicine.
Quanto c’è di autobiografico in questa scrittura? E pensi che attraverso il romanzo tu abbia risolto qualche questione privata come accade a nonna Olimpia?
Il mio racconto è totalmente autobiografico. Ho romanzato poco e solo per fini puramente narrativi, per rendere il racconto più accattivante.
Non credo di aver risolto questioni private, sicuramente ho fatto un grande salto in avanti, dopo essere tornata indietro, con il dolore che ne è derivato.
Un salto in termini di accettazione che ora mi fa vivere molto meglio di prima.
Non esiste ‘soluzione’ a certi problemi, esistono però diverse modalità di convivenza con la propria storia. Credo che abbiamo il dovere di conoscere fino in fondo la nostra storia, per imparare ad amarla, anche se non è delle migliori.
Ho già iniziato la seconda parte della trilogia, e credo che alla fine della terza parte potrò ammettere di aver risolto gran parte dei miei problemi. Chissà!