La vallata si apre tra i monti e appare Collodi, paese natio della madre Angiolina, cui Carlo Lorenzini rende omaggio nella scelta dello pseudonimo. Le case inerpicate sul pendio scosceso, digradano fino a Villa Garzoni, superba residenza nobiliare di villeggiatura della seconda metà del seicento, che richiama nei fregi della facciata lo stile rococò. Sorge sulle rovine del fortilizio, ed è chiamata “Il Castello” dalla gente del posto. Dall’alto del colle, ciò che resta dell’antica Rocca pare vegli ancora a difesa del borgo antico. Il parco della villa vanta gradinate marmoree fra grotte e nicchie segrete, fontane ricadenti in vasche arabescate, che creano giochi d’acqua attraverso un ingegnoso impianto idraulico, nella maniera francese del tempo, e labirinti di siepi di bosso, magistralmente curati da uno stuolo di giardinieri, secondo il gusto italiano.
I genitori di Carlo sono assunti a servizio, il padre come cuoco, la madre come sarta e cameriera, dalla marchesa Marianna Garzoni Ginori, che farà da madrina a Carlo. Vivono alle dipendenze dei marchesi, in una delle casette di pertinenza di Villa Ginori a Firenze, messe a disposizione per il personale di servizio.
Carlo a scuola è svogliato e indisciplinato, più di Pinocchio. “Lo scolaro più irrequieto e impertinente ero io”. Non passa giorno che il maestro non lo colga in flagrante “per una delle mie solite birichinate” e non si senta autorizzato a infliggergli una sonora punizione: “mi faceva sentire il sapore acerbo delle sue mani secche e durissime”.
Un giorno, confinato in fondo all’aula e messo a sedere isolato da tutti per aver molestato un compagno, si accorge di un piccolo buco nella tenda di stoffa grossa e ruvida, verdone-cupo, che scende fino al pavimento e che copre una delle due finestre dell’aula bislunga. Il suo primo pensiero è quello di nascondersi dietro la tenda per allargare il foro con il capo, e tanto preme e tanto forza che alla fine riesce a farcelo passare. I compagni appena vedono il suo viso sbucare in mezzo alla tenda scoppiano a ridere e a far schiamazzi. Non il maestro, però, che si avvicina minaccioso e infuriato “come una folata di vento”. A Carlo, preso dalla paura, non riesce più di far uscire la testa e si mette a piangere. Il maestro, con tono di scherno, invita i ragazzi uno ad uno ad asciugargli le lacrime e a strofinargli il viso con i “fazzoletti da naso”, parecchi dei quali non “avevano mai visto in faccia né la lavandaia né la stiratora”.
“La lezione fu acerba ma salutare. Diventai un buon figliolo anch’io”.