Era nota da tempo una malattia delle macchine caratterizzata da emissioni di fumo dallo scappamento, poca ripresa e difficoltà di marcia in salita. La malattia compariva subdolamente e si aggravava progressivamente fino al blocco del motore e alla morte della macchina. Uno scienziato aveva osservato che il fenomeno si accompagnava a un maggiore consumo d’olio ma la relazione fra questi fenomeni era ancora ignota fino a quando, grazie ai progressi della tecnologia, si riuscì a dosare nei gas di scarico un aumento della materia grassa, in gran parte bruciata. Si coniò allora il nome di “enginopatia lipido-disperdente” e si ipotizzò che la causa di questa malattia fosse un collegamento tra il circolo della benzina e quello dell’olio oppure un malassorbimento di quest’ultimo. Una surrettizia assunzione di questo elemento con la benzina fu esclusa per il fatto che, pur essendo presente in discrete quantità nello scarico, ne erano anche aumentati i fabbisogni, al punto che erano spesso necessarie quantità anche doppie d’olio per mantenere in vita il motore.
Anche se erano ancora poco chiari i meccanismi alla base di questa malattia se ne stabilì il criterio diagnostico, che consisteva nel riscontro di quantità abnormi di lipidi nei gas di scarico di macchine con un quadro clinico compatibile (cioè difficoltà motorie, eccessivo consumo d’olio ed emissione di fumo dallo scarico).
Cominciarono anche i primi studi clinici per stabilire la terapia ottimale della malattia. I primi presidii furono la terapia sostitutiva con adeguate dosi d’olio e l’uso di sostanze corpuscolate che, messe nella benzina, potessero tappare eventuali micro-falle nel circuito di alimentazione. Furono anche tentate sostanze lipo-solubilizzanti ma queste, com’era ovvio, avevano il solo effetto di ridurre l’emissione di fumo mentre non avevano nessun effetto sugli altri sintomi. L’industria produsse una dopo l’altra sostanze come il Tapparil che servivano a ostruire gli ipotetici micro-fori. Ogni nuova sostanza veniva propagandata come una vera innovazione rispetto alla precedente, ma le innovazioni si limitavano a piccole modifiche nella forma e nel diametro delle particelle “tappanti” e nelle loro caratteristiche di adesività. Furono effettuati alcuni trials multicentrici, alcuni in “doppio-cieco”, coordinati da illustri professori, che ricevettero lauti compensi dalle ditte che producevano le particelle e che diventarono ben presto famosi. I risultati degli studi mostrarono una superiorità statisticamente significativa delle particelle rispetto al placebo nel migliorare il quadro clinico delle macchine malate. Nuove frontiere si aprirono allora nella terapia della “enginopatia lipido-disperdente” e un vasto settore dell’industria investì grosse somme nella ricerca in questo campo. Furono organizzati convegni con i più grandi specialisti del settore e si elaborarono delle linee guida internazionali aggiornate ogni due anni sulla terapia di questa malattia. Ai prodotti il cui capostipite era il Tapparli si aggiunsero altri prodotti che dovevano essere somministrati in associazione con i primi, come per esempio tensioattivi che avrebbero dovuto facilitare l’ipotetico assorbimento dell’olio e vari tipi di additivi che avrebbero dovuto migliorare le prestazioni del motore, compromesse dalla malattia. Per migliorare il sintomo fumo furono usati dei mangiafumo e dei filtri a carbone. Insomma, tutta una serie di aziende era coinvolta nella terapia sia per quel che riguardava lo studio di nuovi prodotti che per la sponsorizzazione di ricerche e convegni di specialisti.
Un giorno un meccanico smontò da capo a piedi uno dei motori malati e si accorse che le fasce elastiche che circondavano i pistoni erano consumate o rotte. Non era il primo a osservare il fenomeno ma fu il primo a dargli importanza e a metterlo in relazione alla “enginopatia lipido-disperdente”. Ipotizzò che a causa di quei danni, dovuti verosimilmente a logoramento, la tenuta dei pistoni nei cilindri fosse compromessa e l’olio potesse filtrare nella camera di scoppio. Questo fenomeno poteva giustificare tutti i sintomi della malattia: il fumo nei gas di scarico, la perdita di potenza e l’eccessivo consumo di olio. Subito il meccanico comunicò questa sua osservazione agli specialisti che si occupavano della malattia ma s’imbatté in un muro di scetticismo. Gli si obbiettò che i materiali di cui erano fatte le fasce potevano durare molti anni, che il loro consumo era irrisorio e che non bastava a giustificare l’imponenza del quadro clinico. Fra l’altro c’erano macchine molto vecchie che stavano benone. Insomma a tutti sembrò una spiegazione fin troppo semplicistica e la rigettarono con sufficienza, se non con derisione, tacciando il meccanico di dilettantismo. Il meccanico però non si diede per vinto perché era intimamente convinto dell’importanza delle sue osservazioni. Smontò allora il motore di dieci macchine sane e di dieci macchine malate scoprendo che le lesioni osservate sui pistoni riguardavano solo le macchine malate. Di nuovo rese nota la sua osservazione ma gli fu obbiettato che la selezione delle macchine malate e di quelle sane non era stata fatta in modo rappresentativo e che il campione studiato era troppo piccolo. Lui allora smontò altre macchine, lavorando indefessamente per molti mesi, e arrivò a un numero di cento per ogni gruppo, facendosi fornire il materiale anche da alcuni amici che facevano gli sfasciacarrozze. Questa volta gli fu però obbiettato che le macchine morte potevano aver subito delle alterazioni successive al decesso e che quindi le alterazioni rilevate non spiegavano nulla. Il meccanico, non volendo darsi per vinto e avendo bisogno di soldi per le sue ricerche, si rivolse alla ditta che era la più coinvolta nella ricerca di prodotti nuovi per curare la malattia e che aveva già fatto una gran fortuna con il Tapparil. Anche in questo caso però ebbe delle grosse resistenze. La ditta aveva già investito molti soldi sui nuovi prodotti che erano pronti per essere immessi sul mercato e non aveva alcun interesse che l’ipotesi della tenuta dei pistoni venisse comprovata perché non era attrezzata per la produzione di fasce elastiche. A questo punto il meccanico decise di rivolgersi alle ditte che producevano fasce elastiche. Dovette però contattarne più d’una prima di ottenere ascolto. Le ditte erano piccole, non disponevano di molti fondi ed erano poco propense a investire in innovazioni. E se poi si fosse dimostrato che l’ipotesi del meccanico era sbagliata, chi avrebbe risarcito la ditta delle perdite subite? Per fortuna una piccola ditta, che aveva bisogno di espandersi e di conquistare una più grossa fetta di mercato per affermarsi, decise di correre il rischio. Fornì e fece montare le fasce su un certo numero di macchine malate e i risultati furono eccellenti: i sintomi sparirono in tutte. Ciò nonostante lo scetticismo della comunità scientifica continuò per molti anni e furono richiesti numerosi studi perché le osservazioni del meccanico venissero prese seriamente in considerazione. Tra questi i più difficili e dispendiosi erano quelli “in doppio cieco”, nei quali chi montava le fasce non sapeva se si trattava di una macchina malata o no (le fasce vecchie erano state rimosse da un altro meccanico che era tenuto a mantenere il segreto sul loro stato) e nei quali neppure il collaudatore delle macchine era a conoscenza di cosa era stato fatto. Furono anche proposti degli studi contro placebo nei quali il placebo era costituito da fasce dello stesso aspetto di quelle vere ma fatte di materiale degradabile dopo pochi giri del motore. Questi studi furono però ben presto abbandonati perché considerati poco etici e anche poco significativi in quanto la totale assenza di fasce avrebbe inevitabilmente provocato un malfunzionamento del motore. Gli studi furono ripetuti in molti Paesi differenti e con molti modelli di macchine differenti per vedere se fattori geografici o etnici potessero influire sui risultati.
Passarono molti anni ma alla fine ci furono prove convincenti che il deterioramento delle fasce elastiche fosse il fattore di rischio principale della “enginopatia lipido-disperdente”. Altri anni passarono prima che si dimostrasse che la terapia più efficace era la sostituzione delle fasce, ma questo solo dopo che l’industria trovò un materiale piuttosto costoso che aveva la caratteristica di non logorarsi purché venisse sostituito ogni due anni. Intanto il meccanico era diventato vecchio e non aveva ottenuto alcun beneficio dalla sua scoperta, ma in fondo era soddisfatto: la sua macchina funzionava ancora molto bene da tanti anni, dopo che lui aveva sostituito le fasce elastiche una volta sola.
“Caledonian Road” di Andrew O’Hagan – traduzione di Marco Drago (Bompiani)
Una storia senza innocenti o vincitori, ma solo persone ferite che riescono a farcela con quello che resta dopo un evento drammatico destinato a essere uno spartiacque nelle loro vite.