Anna posò il quaderno sul tavolino di legno di betulla, tra il posacenere e la scatola di fiammiferi, poi si sedette, lo aprì e ne strappò il primo foglio, riducendolo in piccoli pezzetti di carta che impilò nel posacenere.
Il fuoco del fiammifero divorò subito la carta, riducendola a un mucchietto di cenere color lavagna.
Quella di bruciare le sue poesie era una cerimonia ricorrente e amara: Anna le imparava tutte a memoria, poi le riduceva in cenere, una per volta.
Mentre strappava la seconda pagina rivide una faccia livida e due occhi cattivi, quelli del funzionario del Comitato centrale per la cultura e l’ideologia, che l’aveva condannata all’oblio.
Si chiamava Zdanov, e nel 1946 aveva tuonato: “Achmatova è una scalmanata dama da salotto che si muove tra boudoir e inginocchiatoio… Mezza suora e mezza sgualdrina, in lei si mescolano lussuria e preghiera”.
La conseguenza dell’invettiva era stata l’esclusione di Achmatova dall’associazione degli scrittori, con il divieto di scrivere e pubblicare.
E così, Anna, nata da due nobili e vissuta da bambina nella residenza estiva degli Zar, dopo un certo successo come poeta (detestava essere chiamata poetessa), era ridotta a vivere “di pane e di té”, come il suo amico Boris Pasternak.
La seconda pagina prese fuoco, e così tutte le altre, finché del quaderno restò solo la copertina nera.
Sopravviverò anche a questo, pensò. In fin dei conti non la chiamavano tutti, amici e nemici, “Anna l’indomita”?
Bibliografia:
Anna Achmatova, Poema senza eroe e altre poesie, Einaudi;
Anna Achmatova, Distrugga, per favore, le mie lettere: lettere 1906-1966, a cura di Maurizia Calusio, Archinto.