La vecchia casa di campagna in cima alla collina era immersa nel silenzio del mattino. Lì non arrivavano i giornali, e l’unico televisore troneggiava muto in un angolo del salotto.
Arthur Miller non chiudeva occhio da giorni, da quando Marilyn era morta.
Quella mattina ci sarebbero stati i funerali, tutta Hollywood avrebbe glorificato se stessa facendo finta di piangere la bionda più desiderata d’America.
Invece di volare da New York a Los Angeles e farsi massacrare dalla stampa e dai fotografi, Arthur aveva deciso di rimanere a casa e lasciare che quelle persone abbigliate a lutto recitassero la loro farsa, tutta gente che aveva contribuito a distruggere quella che era stata sua moglie.
Per cinque anni Arthur e Marilyn, la “strana coppia”, il sex symbol del cinema e il drammaturgo cerebrale avevano cercato di vivere una vita normale, a Roxbury. Appena sposati lei aveva chiamato Frank Lloyd Wright, il celebre architetto ormai quasi novantenne, per ideare una casa completamente nuova, con una grande sala circolare, circondata da colonne ovali di pietra, un soffitto a cupola per guardare il cielo e una piscina di 20 metri. Il progetto, troppo ambizioso, non fu mai realizzato, e la vecchia casa venne ristrutturata, assi di legno e pietra locale, la veranda, un camino, una grande cucina, e un laghetto poco distante, «La miglior piscina in tutto il Connecticut», secondo Arthur.
Marilyn sembrava felice o, almeno, lo sperava: Hope, hope, hope! aveva scritto su una foto del matrimonio.
Lei si sdraiava sul divano in veranda a studiare copioni, lui scriveva nel suo studio, una capanna nel bosco, tra i rododendri, in cima alla collina.
La pace era durata poco: alcol, tranquillanti, gravidanze finite male, litigi e incomprensioni avevano minato il loro rapporto.
Eppure lui non aveva mai dimenticato il loro primo incontro: «Lei indossava una gonna beige e una camicetta di seta bianca e aveva i capelli sciolti sulle spalle, con la riga a destra, e guardarla dava come una specie di dolore. Allora capii che dovevo fuggire o affrontare un destino inconoscibile. La sua bellezza era circondata da una tenebra che mi turbava».
Gli tornò in mente una lettera che le aveva scritto dopo un litigio particolarmente violento: «Se ti ho fatto piangere o ti ho reso più triste, anche per un secondo, perdonami, mia perfetta bambina. Ti amo». Quel giorno ormai lontano le aveva scritto per chiederle perdono, adesso avrebbe potuto scriverle quelle stesse parole per dirle addio.
Bibliografia:
Arthur Miller, Dopo la caduta, Einaudi
Arthur Miller, Svolte: la mia vita, Mondadori