Giani Stuparich in trincea

“No, per non uccidere e per non essere ucciso, io fuggirò gettando l’allarme con un grido disperato, verso la trincea…”.

Ancora dorme, è disteso supino, la mano poggia sopra la giberna dove ha riposto i caricatori del fucile, il capo è leggermente reclinato: nel sonno è scivolato dallo zaino, arrangiato a guanciale per la notte; ancora è coperto dal berretto con la visiera nera di cuoio. Il viso è imperlato di brina, spessa sulla fronte e sulla barba biondiccia.

Nell’alba nebbiosa, Giani Stuparich guarda il fratello Carlo immerso nel sonno e scorge sul suo volto adolescente una smorfia dolorosa: un’ombra circonda gli occhi e le labbra, segno inequivocabile della tragedia che la guerra rappresenta anche per chi l’ha invocata, mutandone i sentimenti e il destino.

Irredentista, arruolatosi volontario insieme al fratello nella prima guerra mondiale, Giani Stuparich porta il contributo del suo particolare angolo di osservazione dalla linea del fuoco in trincea, con gli interrogativi che si ripropongono anche dopo anni sul senso del sacrificio per un ideale di patria ritenuto superiore a tutto. L’annotazione diaristica si fa racconto ed esplorazione interiore.

Una notte il caporal maggiore Senesi lo sveglia, gli ordina di inastare la baionetta, Giani Stuparich lo segue per uno stretto varco fuori dalla trincea. Attraversano il reticolato verso la sentinella cui deve dare il cambio. Senesi gli sussurra accostando le labbra al suo orecchio: “Attento c’è pericolo di sorprese”. Stuparich rimane solo nella notte umida. Tende l’orecchio, in ascolto, il silenzio è rotto solo da un gracidio di rane. Intravede le macchie scure dei cespugli vicini, nient’altro, aguzza gli occhi ma il buio e la nebbia gli impediscono di vedere più lontano. Sale la tensione, si concentra nella vista e nell’udito. Immagina che un soldato austriaco si avvicini strisciando, e si rizzi in piedi all’improvviso, provocando il suo grido d’allarme nella notte, e la pronta reazione con la lama della baionetta che affonda nel corpo del nemico. Gli pare di avvertire il respiro di tutta la trincea alle sue spalle. Le sensazioni sono nette, affilate come la punta dell’arma che stringe tra le mani. Il turbamento non è originato dall’incombente pericolo ma dalle sue paure e dallo squarcio che la guerra apre nelle coscienze degli uomini.

Dopo due ore qualcuno si avvicina per dargli il cambio. Torna al suo giaciglio dietro le botti di sardine ma non riesce a prendere sonno. Ora sa che non potrebbe mai configgere la lama nel corpo di un altro uomo: “No, per non uccidere e per non essere ucciso, io fuggirò gettando l’allarme con un grido disperato, verso la trincea…”.

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