Nell’autunno del 1945, da Firenze, dove ha assistito all’arrivo degli alleati tra le fila della Resistenza, Carlo Levi giunge a Roma per dirigere il quotidiano L’Italia Libera, organo del Partito d’Azione. Nell’ambiente degradato per le malversazioni e le collusioni del regime, la guerra e le intemperanze della Liberazione, fra ladri di gomme d’automobili, usurai, spacciatori di sigarette e lustrascarpe di strada, trovare una camera ammobiliata pare impresa disperata, gli alberghi sono occupati dagli alleati, gli affittacamere stipano la gente nei tuguri più squallidi e umidi, ingombri di cose smesse, persino nei cessi. Nella ricerca affannosa di una sistemazione, prende alloggio per una notte in “una stanza alta su via Gregoriana”, in una casa elegante dallo scalone decorato a motivi floreali. Dalla finestra aperta sui tetti e le altane, scrutando nel buio che “pullula di ombre”, “par di sentire ruggire i leoni. Un mormorio indistinto è il respiro della città, fra le sue cupole nere e i colli lontani, nell’ombra qua e là scintillante”. Fra i barbagli del caminetto acceso, i riflessi del pavimento rosso della camera arredata con modesti mobili fiorentini, e le suggestioni della semioscurità, tira le somme di quello che ha visto in cento altri alloggi simili, dove ha dormito o lavorato durante le sue peregrinazioni: in palazzi dalle scale in ombra, dai corridoi invasi dagli odori di cucina o dai tanfi dei bagni, intravedeva i letti sfatti delle camere, i divani alla turca, i berretti e le divise da ufficiale appesi agli attaccapanni.
Si spoglia in fretta nella stanza fredda, con il desiderio di affondare presto nel letto alto, accogliente e “meravigliosamente soffice”, coperto da piumini leggeri. Sul piano di marmo del tavolino accanto al letto, posa l’orologio che leva dalla tasca ogni sera, regalo di suo padre in occasione della laurea in medicina: “un cronometro Omega che non perdeva un secondo”. Ha venduto la pesante catena d’oro in un periodo di ristrettezze, in Francia, nel 1940, durante l’invasione tedesca, ma quell’orologio mantiene saldo il legame con il tempo passato, scandisce i suoi ricordi d’infanzia. Piacevolmente avvolto dalle lenzuola fresche, rievoca le sue memorie, mentre fuori la notte è annunciata da una tromba solista con le note del “silenzio”.
Sprofondato nel sonno, sogna di aver perso l’orologio, sottrattogli per un furto. Lo ritrova in un’atmosfera barocca, in una sorta di tribunale, che il sogno affolla di figure caricaturali. L’orologio è stato trasformato in una sveglia che nasconde il vecchio cuore pulsante, dopo che sono stati sostituiti il quadrante e la cassa. Smonta la sveglia per potersi riappropriare del meccanismo ancora funzionante.
Al mattino il risveglio è lento, stenta a uscire dal sogno, sebbene il sole già alto irrompa dalle imposte dimenticate aperte. In bagno, in fondo a un lungo corridoio, l’aria fredda e l’acqua gelida finiscono di svegliarlo del tutto. Dopo essersi vestito, prende il suo orologio per rimetterselo nel taschino. Gli scivola dalle mani, cade a terra. Il vetro si rompe, il quadrante e la cassa si ammaccano, rimane intatto solo il meccanismo. Raccatta un orologio a pezzi, simile a quello del sogno.
Interpreta lo strano fatto come un segno del destino. Prelude a un cambiamento di sguardo nel modo di osservare il mondo, più tollerante verso le umane debolezze e fragilità. Con il conforto dell’immancabile sigaro toscano. “In questa terra di lacrime, ci restano due piaceri ben distinti: amare una bella donna e fumare un sigaro toscano”.